«Usciamo dalle nostre gabbie interiori»: la verità "libera" i detenuti
C'è anche il carcerato che con il Vangelo ha scelto di confessare il reato sempre rimosso tra le storie del penitenziario di Cagliari Uta. Dove si fa esperienza del Sinodo imparando ad ascoltarsi

«Il Sinodo è arrivato anche tra queste mura. Quando papa Francesco l’ha indetto, ho chiesto ai miei amici detenuti cosa si aspettano dalla Chiesa e quale contributo vogliono portare. Ci vediamo qui ogni settimana: oggi è l’incontro numero 142, è una ricchezza per tutti noi». Padre Gabriele mi accoglie nella cappella della Casa circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari Uta, mezz’ora di auto dalla città, un carcere scomodo da raggiungere sia per chi ci lavora sia per i parenti che arrivano in visita. Uno dei tanti costruiti lontano dai centri abitati in ossequio alla logica securitaria che vuole tenere alla larga un mondo che invece ha bisogno più che mai di stringere rapporti con chi vive “fuori”. Nel 2021 è nato un gruppo sinodale formato da una trentina di ristretti (la composizione è variabile perché ogni tanto, per fortuna, qualcuno torna in libertà), diventato un luogo di confronto e amicizia che porta ossigeno alle menti e ai cuori: «Così i detenuti vivono l’esperienza di una Chiesa che si fa vicina, dove anche loro possono essere protagonisti mettendo in comune le fatiche e testimoniando il desiderio di cambiamento – spiega il sacerdote, arrivato qui 9 anni fa dopo 8 di missione in Brasile –. All’inizio non è stato facile imparare ad ascoltarsi e a valorizzare l’esperienza degli altri, c’era sempre in agguato la tentazione di affermare ognuno la propria idea. Nel tempo hanno capito che il cammino sinodale riguarda anche loro e che il rapporto con “l’altro” è qualcosa di necessario. Partecipano anche alcuni musulmani: stimano chi prega Dio, apprezzano la possibilità di confrontarsi con quanti vivono un’esperienza religiosa, confrontano le pagine della Bibbia con alcune sure del Corano. Tra gli italiani, molti hanno ricevuto un’educazione cristiana ma è quasi sempre un ricordo che si perde nel passato. Qui trovano la possibilità di verificare se la fede aiuta a vivere anche nella condizione carceraria. Alcuni diventano veri samaritani e aiutano i “nuovi giunti” (quelli appena arrivati) che spesso rimangono disorientati in un ambiente sconosciuto e a volte ostile. E capita che alcuni siano testimoni del Vangelo verso i compagni». È accaduto così a Salvatore, che si è lasciato alle spalle una vita affettiva disordinata e segnata dalle dipendenze, fino a una serie di gravi reati che l’hanno portato in cella. « Dopo un’esperienza disastrosa nel carcere di Badu ‘e Carros, dove cocaina e alcol circolavano senza problemi e rischiavano di peggiorare la mia situazione, l’arrivo qui a Uta ha segnato una svolta nella mia detenzione. Sono grato a ispettori, assistenti, educatori che hanno aiutato il mio percorso, e a quelli che chiamo “volontari dal volto coperto”, le persone meravigliose che ci regalano tempo e attenzione facendo trasparire nei loro gesti il volto di Gesù, quel Gesù conosciuto da bambino ma smarrito nella mia esistenza incasinata».
L’amicizia con i volontari e la partecipazione al gruppo sinodale ha acceso la luce nel buio di Salvatore, che è diventato testimone “contagioso” del suo cambiamento con i compagni di detenzione. Con uno di loro, in carcere con l’accusa di femminicidio, è nata un’amicizia che si è rivelata decisiva. « Mi sono ricordato di una frase del Vangelo di Giovanni – “la verità vi farà liberi” –, e una sera gli ho detto: “se sei innocente porta avanti la tua causa finché vivi, ma se sei colpevole devi trovare pace nel cuore, e puoi farlo solo se dici la verità e riconosci la tua colpa. Prega, chiedi a Dio di indicarti la strada”. Il giorno dopo mi ha abbracciato piangendo: aveva deciso di andare dal magistrato per confessare il reato sempre negato. Mi ha detto: “grazie a te sono uscito dalla gabbia in cui mi ero rinchiuso”. Ma io so che non è stato merito mio: il Signore mi ha usato come strumento per farsi presente al mio compagno». Anche per Giovanni la partecipazione al gruppo sinodale è diventata una tappa decisiva del cambiamento. Condannato per abusi su un minore, si è sempre proclamato innocente e vittima di una vendetta da parte di alcuni parenti, in questi anni è diventato l’angelo custode del suo compagno di cella colpito dal morbo di Parkinson, assistendolo giorno e notte in ogni necessità. « La mia condanna è ingiusta, sto ancora combattendo per fare emergere la verità e ottenere giustizia, e per anni mi sono domandato: se non ho mai fatto del male a nessuno, che ci faccio qui? Nel rapporto con il mio concellante (il compagno di cella, ndr) mi sono convinto che l’unico motivo per cui sono in carcere è essere al servizio di quella persona, fargli vedere che Dio si manifesta in ogni circostanza. Ti sembro strano, vero? Ma nulla accade senza una ragione». Storie di contraddizioni mai sanate e di vite cambiate, come tante altre raccontate negli incontri del gruppo sinodale, dove si capisce che l’uomo non è il suo errore e che anche nella detenzione si può fare l’esperienza della libertà.
«Potrebbe suonare come un paradosso – osserva padre Gabriele –, ma su questo tema hanno scritto perfino una canzone. Dice: “Siamo qui ma in fondo liberi dentro, liberi di viaggiare ogni volta con la mente, liberi di volare con la fantasia, di sentirci ancora uomini liberi”». Vicente, che recentemente si è aggiunto al gruppo, nota: « Mi piace partecipare perché si parte dalla vita concreta, non da princìpi astratti. Qui incontriamo chi guarda con amore le nostre ferite, e diventiamo capaci di guardare le ferite degli altri. Però vorremmo essere accolti, così anche quando torniamo liberi, nelle parrocchie e nelle comunità cristiane». Un episodio emblematico dello spirito che anima il gruppo si ritrova nella lettera scritta mesi fa ai genitori di Filippo Turetta, il giovane reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin: «Conosciamo il vostro dolore. Con le nostre famiglie abbiamo percorso sino in fondo tutte le stazioni del vostro Calvario (...). Siate vicini a Filippo, non abbandonatelo un solo istante, non giudicatelo. Dategli speranza quando andrete a trovarlo. Non manchi il sorriso sul vostro volto e la forza calorosa di un abbraccio. Mentre le corti e i sinedri discutono su quali e quante leggi occorra ancora promulgare per assecondare l’onda emotiva nazionale, nel vostro sorriso e nel vostro abbraccio Filippo riconoscerà la legge che davvero ha violato: le legge dell’amore per il nostro prossimo che ha nell’amore coniugale l’elevazione più alta che conduce a Dio (...). Siamo vicini al grande dolore della famiglia di Giulia, che comprendiamo e che ci tocca nel profondo del cuore». Seguendo il consiglio dell’arcivescovo di Cagliari, Giuseppe Baturi, la lettera venne inviata a papa Francesco, che nella sua risposta al gruppo sinodale scriveva: « Mi ha fatto bene percepire la vostra vicinanza con i sofferenti. Solo la forza di Dio, la misericordia, può guarire certe ferite. E dove alla violenza si risponde con il perdono, la vicinanza e la compassione, là anche il cuore di chi ha sbagliato può essere vinto dall’amore che sconfigge ogni forma di male. E così, tra le vittime e tra i colpevoli, Dio suscita autentici testimoni e operatori di misericordia». Recentemente un magistrato di sorveglianza ha menzionato la partecipazione al cammino sinodale come uno degli elementi che hanno portato all’ordinanza di scarcerazione di un detenuto. Padre Gabriele legge l’episodio come «il riconoscimento da parte delle istituzioni del ruolo educativo svolto dalla Chiesa all’interno del sistema carcerario. È un merito civile che si aggiunge al contributo che queste persone offrono al rinnovamento della Chiesa. Abbiamo bisogno di loro, dalle periferie si capisce di più che Gesù è vicino a chi soffre».
(12 - continua)
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