Trump e l'Ucraina: il "grande rimosso"
Nel 2022 l'operazione speciale di Putin generava passione e indignazione. Il tempo ha lentamente corrotto quel comune sentire, la tragedia è diventata piano piano un rumore di fondo

A dispetto di quel tintinnio di sciabole nucleari che la stampa occidentale ha svelato a proposito dei missili che il Pentagono è pronto a fornire a Kiev e alla possibile ripresa dei test americani rompendo una moratoria ventennale (per lo meno di facciata), c’è un grande rimosso dietro l’ondivaga predisposizione di Donald Trump a dire e non dire, mentire e smentire secondo la collaudata tecnica cara all’ideologo Steve Bannon. Il “grande rimosso” si chiama Ucraina.
Nel linguaggio non scritto della diplomazia, l’Ucraina è ormai una pedina in avanzata fase di declassamento. Le grandi potenze discutono altrove, nelle conferenze artiche, nelle trattative sulle rotte polari e nelle nuove mappe commerciali che solcano l’Asia e il Nord. Là dove una volta si parlava di libertà, oggi si parla di logistica. O si attende, annullando vertici come quello di Budapest, in attesa che le parti avvicinino maggiormente i rispettivi interessi. È la lezione amara della Realpolitik. Una lezione che Vladimir Putin ha da sempre fatto sua, guatando dalle stanze sontuose del Cremlino le mosse dell’avversario americano, attendendo il momento opportuno per rilanciare, ben conscio che ogni settimana di esitazione occidentale è una settimana di consolidamento delle posizioni russe e che la prospettiva di una pace negoziata sarà una pace a spese di Kiev e pagata dagli europei: con i fondi della ricostruzione, con il gas, con la rinuncia alla voce unitaria.
E mentre gli occhi del mondo si spostano verso il Medio Oriente e l’Asia, Mosca e Pechino ridisegnano insieme le nuove rotte del Nord, le vie polari che presto collegheranno l’Artico alla Cina. È la nuova geografia del XXI secolo, fatta di corridoi marittimi, cavi digitali sottomarini, pipeline e rotte navali. Là dove un tempo si parlava di ideologie, oggi si parla di logistica. Qualcuno l’ha definita “una Yalta senza trattati”, perché a ottant’anni da quell’accordo fra le tre potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale che divideva il mondo in aree di influenza, oggi Trump, Putin e Xi Jinping non hanno più bisogno di mappe per spartirsi il pianeta.
All’alba dell’invasione russa, l’Ucraina aveva il crisma di una frontiera morale. La stessa che con l’invasione della Polonia nel settembre del 1939 aveva spinto il Regno Unito e la Francia a muovere guerra alla Germania nazista. Nel 2022 l'operazione speciale di Putin generava accomunava passione e indignazione. Il tempo ha lentamente corrotto quel comune sentire, la tragedia è diventata piano piano un rumore di fondo, la strage di centinaia di migliaia di vite umane da entrambe le parti un inevitabile danno collaterale. L’Europa discute di pacchetti energetici e fondi per la ricostruzione, l’America parla di elezioni, immigrazione, shutdown, innocue cosmesi commerciali sui dazi cinesi contrabbandate come successi planetari (laddove la cruda realtà è quella di una potenza globale – quella di Pechino – che detta legge sul mercato delle terre rare), muscolari avvisaglie al più riottoso fra gli etnocaudillos del “cortile di casa”.
E l’Ucraina? « L’Ucraina - commentano a Washington i più vicini al cerchio magico del presidente - non è più il centro del dramma, ma solo la periferia del compromesso che prima o poi verrà». Una scomparsa simbolica, che conferma come anche il linguaggio sia cambiato. Niente più crociate morali, niente più “difesa a oltranza della democrazia”. La nuova dottrina americana è una fredda contabilità: cosa ci si guadagna? E, soprattutto, chi pagherà? La risposta è sotto i nostri occhi. In questo scenario sarà principalmente l’Europa a pagare il prezzo dell’illusione che le ha fatto credere che la guerra fosse un’eccezione, che l’America sarebbe rimasta l’eterno garante della sua sicurezza, che i valori della democrazia liberale bastassero a tenere lontano il cinismo della geopolitica. Ora l’Europa scopre di essere sola, intrappolata tra l’obbligo morale di sostenere l’Ucraina e la necessità pragmatica di trattare con chi la minaccia. A fine 2025 fra forniture e prestiti il costo della guerra si attesterà attorno ai 360 miliardi di dollari. Altre centinaia ne occorrono a breve. «Una grande opportunità», ha scritto l’Economist, che può portare Kiev alla vittoria, non sul piano militare ma su quello della crisi che il perdurante sostegno finanziario all’Ucraina produrrebbe nel medio termine all’economia russa, già prossima alla crescita zero, per non dire del bilancio in vite umane. Il cerino, come si vede, è rimasto in mano a noi. E non è detto che sia un male.
© RIPRODUZIONE RISERVATA





