«Troppo è troppo». In Bretagna la rivolta contro il parco eolico
Le manifestazioni a Roscoff e Morlaix, nel Finistère, che contestano la «sproporzione» del progetto che prevede "mulini a vento" considerati eccessivi per vicinanza alla costa, altezza e den

«Tout commence en Finistère» è lo slogan ufficiale della regione. E se fosse davvero così? In Finistère, infatti, i nastri azzurri sono scesi per tre volte in piazza: a Roscoff, giovedì 21 agosto, dopo aver già manifestato il 31 maggio e a Morlaix il 5 luglio. I nastri azzurri si oppongono ai “mulini a vento” previsti nella baia di Morlaix (Finistère). Si tratta di un movimento in parte locale, ma che, a differenza dei bonnets rouges o dei gilets jaunes, solleva una questione che riguarda sempre più l’intero pianeta: i costi sociali della transizione ecologica e dell’espansione delle energie rinnovabili. In realtà, i nastri azzurri non rifiutano le turbine eoliche in quanto tali, ma contestano la “troppità” del progetto di Morlaix, considerato sproporzionato: troppo vicino alla costa (16 chilometri dall’isola di Batz, a un miglio da Roscoff), troppo alto (287 metri), troppo fitto e numeroso (110 turbine su 25.000 ettari).
Gli scenari più accreditati della transizione energetica mondiale, basati su un futuro alimentato da vento, acqua e sole (wind-water-sun), prevedono infatti l’installazione di milioni di turbine a terra e in mare entro il 2050. È il caso, per esempio, degli scenari di Jacobson e De Lucchi (100% Clean and Renewable Wind, Water, and Sunlight All-Sector Energy Roadmaps for 139 Countries, Stanford University, 2017). Se un progetto di 110 turbine suscita già controprogetti e manifestazioni organizzate, cosa accadrà quando si tratterà di realizzarne milioni? Che ne sarà delle migliaia di chilometri quadrati di pannelli fotovoltaici, talvolta in conflitto con i paesaggi e con gli usi agricoli dei suoli? E dei nuovi sbarramenti fluviali, grandi o piccoli, per centrali idroelettriche? Il caso dei nastri azzurri di Morlaix ha il merito di ricordarci che «troppo è troppo», e che nessuna tecnologia, per quanto “verde”, può crescere oltre una certa scala senza conseguenze indesiderabili
Già nel 2006, l’economista britannico Nicholas Stern aveva stimato i costi economici globali della transizione necessaria a evitare un collasso climatico: circa l’1% del Pil mondiale all’anno se avviata subito, molto di più se rimandata. Ma quasi nessuno osa sottolineare i costi sociali (umani, paesaggistici, ecologici, materiali) di uno sviluppo troppo intenso e non sostenibile delle tecnologie rinnovabili. La ricostruzione sostenibile e urgente delle infrastrutture energetiche globali rappresenta probabilmente uno sforzo economico superiore a quello della Seconda guerra mondiale. Dopo aver procrastinato questa transizione per sessant’anni, ci troviamo oggi davanti a un compito ancora più oneroso e impellente. Ma la transizione è inevitabile, ma non sarà indolore. E più aspettiamo, più alti saranno i costi umani, sociali, economici ed ecologici.
«La transizione ecologica sarà un bagno di sangue», dichiarò in Italia Roberto Cingolani, ingegnere robotico, nel febbraio 2021, appena nominato ministro della Transizione ecologica, dicastero imposto dal Movimento 5 Stelle come condizione per la nascita del governo Draghi. Più cauto, il presidente Mario Draghi affermò il 17 febbraio 2021, presentando il suo governo in Senato: «Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta». Una frase solenne – preparata dal principale partito della sua coalizione – che fece i titoli dei giornali, subito accostata alla sua celebre promessa del 2012, quando era presidente della Bce: per difendere l’euro avrebbe fatto «whatever it takes» («qualunque cosa sia necessaria»).
Gli scenari più accreditati della transizione energetica mondiale, basati su un futuro alimentato da vento, acqua e sole (wind-water-sun), prevedono infatti l’installazione di milioni di turbine a terra e in mare entro il 2050. È il caso, per esempio, degli scenari di Jacobson e De Lucchi (100% Clean and Renewable Wind, Water, and Sunlight All-Sector Energy Roadmaps for 139 Countries, Stanford University, 2017). Se un progetto di 110 turbine suscita già controprogetti e manifestazioni organizzate, cosa accadrà quando si tratterà di realizzarne milioni? Che ne sarà delle migliaia di chilometri quadrati di pannelli fotovoltaici, talvolta in conflitto con i paesaggi e con gli usi agricoli dei suoli? E dei nuovi sbarramenti fluviali, grandi o piccoli, per centrali idroelettriche? Il caso dei nastri azzurri di Morlaix ha il merito di ricordarci che «troppo è troppo», e che nessuna tecnologia, per quanto “verde”, può crescere oltre una certa scala senza conseguenze indesiderabili
Già nel 2006, l’economista britannico Nicholas Stern aveva stimato i costi economici globali della transizione necessaria a evitare un collasso climatico: circa l’1% del Pil mondiale all’anno se avviata subito, molto di più se rimandata. Ma quasi nessuno osa sottolineare i costi sociali (umani, paesaggistici, ecologici, materiali) di uno sviluppo troppo intenso e non sostenibile delle tecnologie rinnovabili. La ricostruzione sostenibile e urgente delle infrastrutture energetiche globali rappresenta probabilmente uno sforzo economico superiore a quello della Seconda guerra mondiale. Dopo aver procrastinato questa transizione per sessant’anni, ci troviamo oggi davanti a un compito ancora più oneroso e impellente. Ma la transizione è inevitabile, ma non sarà indolore. E più aspettiamo, più alti saranno i costi umani, sociali, economici ed ecologici.
«La transizione ecologica sarà un bagno di sangue», dichiarò in Italia Roberto Cingolani, ingegnere robotico, nel febbraio 2021, appena nominato ministro della Transizione ecologica, dicastero imposto dal Movimento 5 Stelle come condizione per la nascita del governo Draghi. Più cauto, il presidente Mario Draghi affermò il 17 febbraio 2021, presentando il suo governo in Senato: «Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta». Una frase solenne – preparata dal principale partito della sua coalizione – che fece i titoli dei giornali, subito accostata alla sua celebre promessa del 2012, quando era presidente della Bce: per difendere l’euro avrebbe fatto «whatever it takes» («qualunque cosa sia necessaria»).
Il mito della «transizione ecologica gratis», diffuso a colpi di miliardi di marketing, resta potente. La narrazione «tecno-soluzionista» promette una riconversione senza conflitti e addirittura vantaggiosa per la crescita economica, ma si fonda su un patto implicito che non può durare: nei circoli scientifici e attivisti nessuno crede a una transizione indolore, ma al grande pubblico si comunica da decenni un messaggio rassicurante e ottimistico – persino se si trattasse di annunciare la fine del mondo. In Svizzera, ad esempio, buona parte del personale scientifico e politico sembra credere al racconto di una transizione senza sacrifici, sintetizzato nell’idea-guida di una “società a 2.000 watt”, elaborata fra il 1998 e il 2002 dalle principali scuole politecniche federali (Eth, Epfl e altre). Questa visione, cardine della politica della sostenibilità della Confederazione, prevede che entro il 2050 gli abitanti della Svizzera usino (in media) 2.000 watt di potenza pro capite, ossia il livello del 1960, contro i 6.000 watt del 2002. In metafora: due aspirapolvere da 1.000 watt accesi giorno e notte, invece di sei.
Nella “buona novella” della società a 2.000 watt, la transizione non comporterebbe rinunce: nel 2050, rispetto al 2002, il cittadino medio sarebbe persino «più ricco del 60%» e potrebbe consumare altrettanto di più (How rich is the 2000 Watt Society? Bretschger, 2010). Dal 2002 a oggi la Svizzera ha ridotto i consumi medi di energia primaria (non di elettricità) da 6.000 a circa 4.000 watt di potenza pro capite, caso unico al mondo. Ma per raggiungere i 2.000 watt al 2050, occorrerebbe raddoppiare la velocità di riduzione: come chiedere a uno scalatore del Cervino di correre il doppio negli ultimi 2.000 metri rispetto ai primi.
Quello che quasi nessuno dice: una transizione energetica completa e tempestiva nei Paesi industrializzati non avverrà senza mettere la politica della sobrietà al primo posto, ancor prima dell’efficienza e delle energie rinnovabili. “Sobrietà” energetica significa ridurre – volontariamente o per imposizione – la domanda di energia per gli usi meno ragionevoli. Ciò richiederà inevitabilmente un dibattito pubblico, forse anche aspro, su quasi siano gli usi “ragionevoli” – o no – dell’energia in un pianeta di 8–10 miliardi di persone, in preda a una crisi climatica ed ecologica in rapida accelerazione.
Alcune istituzioni internazionali – Ue, Aie, Onu – hanno appena iniziato a promuovere una politica della sobrietà (La politique de la sobriété, Morosini, 2025). Ma finché governi e media non ne faranno una priorità, nessun obiettivo realistico sarà raggiungibile. Se non vi siete accorti di essere diventati più sobri nei consumi energetici, se non ne avete nemmeno sentito parlare, significa che gli sforzi e gli investimenti per rendere la sobrietà mainstream e praticata vanno moltiplicati. Non raddoppiati, non triplicati: ma decuplicati. I nastri azzurri di Morlaix ci ricordano che dietro ogni turbina e ogni pannello solare si celano dei costi sociali. Il mondo non ha bisogno di un’altra favola verde, ma di una politica di sobrietà capace di dire chiaramente: consumare meno, vivere con misura. Solo così la transizione potrà essere un atto di civiltà, invece di un “bagno di sangue”.
Nella “buona novella” della società a 2.000 watt, la transizione non comporterebbe rinunce: nel 2050, rispetto al 2002, il cittadino medio sarebbe persino «più ricco del 60%» e potrebbe consumare altrettanto di più (How rich is the 2000 Watt Society? Bretschger, 2010). Dal 2002 a oggi la Svizzera ha ridotto i consumi medi di energia primaria (non di elettricità) da 6.000 a circa 4.000 watt di potenza pro capite, caso unico al mondo. Ma per raggiungere i 2.000 watt al 2050, occorrerebbe raddoppiare la velocità di riduzione: come chiedere a uno scalatore del Cervino di correre il doppio negli ultimi 2.000 metri rispetto ai primi.
Quello che quasi nessuno dice: una transizione energetica completa e tempestiva nei Paesi industrializzati non avverrà senza mettere la politica della sobrietà al primo posto, ancor prima dell’efficienza e delle energie rinnovabili. “Sobrietà” energetica significa ridurre – volontariamente o per imposizione – la domanda di energia per gli usi meno ragionevoli. Ciò richiederà inevitabilmente un dibattito pubblico, forse anche aspro, su quasi siano gli usi “ragionevoli” – o no – dell’energia in un pianeta di 8–10 miliardi di persone, in preda a una crisi climatica ed ecologica in rapida accelerazione.
Alcune istituzioni internazionali – Ue, Aie, Onu – hanno appena iniziato a promuovere una politica della sobrietà (La politique de la sobriété, Morosini, 2025). Ma finché governi e media non ne faranno una priorità, nessun obiettivo realistico sarà raggiungibile. Se non vi siete accorti di essere diventati più sobri nei consumi energetici, se non ne avete nemmeno sentito parlare, significa che gli sforzi e gli investimenti per rendere la sobrietà mainstream e praticata vanno moltiplicati. Non raddoppiati, non triplicati: ma decuplicati. I nastri azzurri di Morlaix ci ricordano che dietro ogni turbina e ogni pannello solare si celano dei costi sociali. Il mondo non ha bisogno di un’altra favola verde, ma di una politica di sobrietà capace di dire chiaramente: consumare meno, vivere con misura. Solo così la transizione potrà essere un atto di civiltà, invece di un “bagno di sangue”.
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