Spaccatura Usa: nuovi toni, vecchi tuoni
Oggi le vere domande sono ciò che l'amministrazione Trump farà dal 6 gennaio

Ringraziamenti a Hillary Clinton; sarò leader di tutti; ora è il momento di essere uniti; far rimarginare le ferite del Paese. Le prime parole di Donald Trump da presidente degli Stati Uniti sono state accolte da molti con un sollievo che è sconfinato nella sorpresa. Come se il saluto di prammatica, nemmeno un discorso, che ci si aspetta pronunci ogni eletto alla Casa Bianca – e a qualsiasi carica pubblica – fosse per il nuovo inquilino di Pennsylvania Avenue una straordinaria concessione e un cambio di rotta. La stessa Wall Street ha assorbito presto lo choc della notte, passando dai timori di un crollo a una giornata quasi positiva.
Ma tutto questo non basta nemmeno per cominciare a inquadrare il fenomeno Trump, con la novità dirompente e le incognite che lo accompagnano. Il candidato anti-sistema, che fino a 18 mesi fa non aveva mai corso in una competizione pubblica – al massimo era stato organizzatore di concorsi di bellezza –, è arrivato a essere Comandante in capo, forse l’uomo più potente del mondo. Sarebbe però sbagliato considerarlo un presidente per caso, un outsider favorito da circostanze irripetibili.
La sua trionfale cavalcata – dallo scetticismo circa la sua discesa in campo al successo nelle primarie, dal distacco dal partito che non lo amava all’apoteosi di martedì – è stata il frutto di un’abilissima condotta politica che ha sfruttato al meglio i sentimenti di un’America scontenta e ansiosa di trovare un proprio campione a Washington.
Il Paese sta certamente cambiando sotto la pressione dell’era globale, ma nell’ultimo anno non vi è stata alcuna rivoluzione. Il ceto medio bianco meno istruito e prevalentemente evangelico che ha portato The Donald alla Casa Bianca era stato protagonista anche dell’era Bush. Si aggiunga che il Partito repubblicano non ha saputo esprimere personalità forti e convincenti durante la lunga presidenza di Obama ed ecco che si è aperta una strada per il Tycoon che ha studiato l’ascesa di Berlusconi e ne ha adattato tanti aspetti alla realtà Usa.
Dall’altra parte ha trovato una candidata che è giunta all’ultimo atto per l’inerzia di un’investitura dinastica nel segno (auspicato, ma non realizzato) della prima donna al vertice degli Stati Uniti. Era solo l’espressione dell’establishment e dei ricchi, invisa al resto della nazione? Anche questa narrazione non coglie pienamente il bersaglio, perché Hillary ha raccolto una manciata di voti popolari più del suo rivale, avendo un elettorato più composito, soprattutto tra le minoranze, che però non l’hanno premiata come fecero con Obama. E poi ha coagulato intorno a sé quasi tutti coloro che temevano più l’avventurismo dello sfidante che il suo essere donna di potere e dei gruppi di potere.
L’America è spaccata, polarizzata come poche volte nella sua storia, eppure non bisogna esagerare rispetto a un Paese che ha vissuto una vera guerra civile e, più recentemente, il maccartismo. Ha vinto un repubblicano dopo due mandati di un democratico; ha vinto un leader populista in un tempo che vede erodersi i meccanismi classici di rappresentanza dei sistemi liberal-democratici; ha vinto il campione di chi si sente "dimenticato" dalle classi dirigenti e dalle scelte governative nell’ambiente liquido dei social media in cui la politica ha perso la "serietà" (al di là della buona fede e della competenza) che qualificava in passato i suoi migliori esponenti e che ora viene denigrata come eccesso di "correttezza" progressista.
Forse Trump ha vinto proprio perché ha squarciato del tutto il velo della "serietà" che caratterizzava il processo politico. Molti di coloro che l’hanno votato probabilmente ne colgono soprattutto questo aspetto procedurale, che viene prima dei contenuti programmatici: dire pane al pane, rovesciare il tavolo, andare al sodo. Quei modi che lo rendono personalmente insopportabile a gran parte degli europei gli sono serviti da passepartout in un tornante della storia che fa prevalere timori istintivi e reazioni viscerali in coloro che si sentono, a torto o a ragione, minacciati nel proprio status sociale e culturale.
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