Sorriso, strazio, pubblicità: in tv si parla di guerra senza alcun dolore

L’abitudine abbastanza sconcertante di parlare dell'orrore che si sta consumando in Medio Oriente come in Ucraina ammiccando alle telecamere rivela un'inaudita cecità sociale. Si può smettere?
July 27, 2025
Sorriso, strazio, pubblicità: in tv si parla di guerra senza alcun dolore
. | Oscar Iarussi
A seguire i telegiornali o i programmi serali cosiddetti “di approfondimento” si coglie una divaricazione crescente tra l’idea di morte e quella di guerra, dall’Ucraina a Gaza, fino al recente conflitto missilistico tra Israele-USA e Iran. È uno scollamento concettuale tanto più evidente quando scrolliamo i video di Instagram e Facebook, laddove il monito iniziale che talora mette in guardia dalla violenza delle immagini serve sì e no a esorcizzare la visione di una strage o dell’assassinio attuato da un drone. Vi assistiamo senza batter ciglio, prima di passare a tutt’altro contenuto e spesso frivolo. Si direbbe una regressione antropologica da cui deriva anche l’incapacità di distinguere il virtuale dal reale e il vero dal falso. Siamo al di là della pur terribile nozione di “morte in diretta”, un tempo considerata un tabù dal critico cinematografico francese André Bazin, secondo il quale la morte e l’orgasmo non sarebbero rappresentabili sullo schermo in virtù della loro natura intima e irripetibile. Invece oggi viviamo in preda alla distratta pulsione di “vedere tutto”, che equivale a non contemplare alcunché, tradendo il templum e la sacralità palesi nell’etimo del verbo. Il risultato è una sorta di cecità sociale o uno sguardo febbrile e opacizzato incapace di cogliere il cuore delle cose.
“Vedere tutto” è il tipico frutto di un delirio di onnipotenza, che, ricorrente nei sistemi totalitari (il Panopticon carcerario analizzato da Michel Foucault), adesso appare diluito, “democratizzato”, banalizzato. La modalità dell’Homo videns di cui scrisse Giovanni Sartori (Laterza 1997) considera fuori luogo ogni cautela e ammette il climax quale unica figura retorica. L’acme, l’apice, la hybris sono sempre provvisori, puntualmente destinati a venire sormontati da un nuovo eccesso nella corsa all’effetto prodigioso e, specularmente, all’immiserimento del valore della vita umana. Donde l’abitudine abbastanza sconcertante di parlare di guerra sorridendo in tv. Esperti o presunti tali di missili, di armi nucleari, di morte procurata in un istante dicono la loro con un ghigno. Ecco conduttori orgogliosi della potenza militare sul campo e ospiti quien sabe perché là, l’uno contro l’altro armati di opinioni sprezzanti... Più show che talk, oltre il dolore e un po’ anche oltre il pudore. Mentre i morti e i vivi, a Gaza e altrove, sono ormai fuori fuoco (nel senso fotografico, non bellico), un flusso ininterrotto di polemologi/polemisti amplifica la diatriba e la rende “virale”. È una meta-guerra, che trascende gli eventi e statuisce un codice autonomo con i suoi personaggi, cui il pubblico si affeziona sino a tifare per l’uno o per l’altro secondo un modello perfezionato durante gli anni del Covid. Tali personaggi nutrono i trend sui social e diventano maschere in commedia, o, peggio, maschere in tragedia.
D’altro canto, non sappiamo alcunché del terrore nei rifugi sotterranei quando risuonano le sirene di allarme, o della fame e del freddo sofferti dai profughi. Una grande intellettuale, la newyorchese Susan Sontag, nel saggio Davanti al dolore degli altri (Mondadori 2003, Nottempo 2021) s’interroga intorno a un dilemma tragico: è possibile la riproduzione del dolore? Come si può fotografare o filmare la guerra senza farle perdere verità o produrre voyeurismo? Ancora una volta: quando diamo per scontato di capire o vedere tutto, siamo invero ciechi rispetto all’Altro, alla violenza perpetrata sulle vittime. Già, dov’è finita la vera guerra? Dove i corpi, la carne, il sangue, il calore, i pensieri, le paure, i sentimenti, le parole sussurrate fra le rovine? Restate con noi, torniamo tra pochissimo, dopo la pubblicità...

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