Senza infanzia stiamo diventando meno umani
di Anna Granata
Premura, cura, tenerezza si coltivano a contatto con i piccoli. Abbiamo bisogno di riforme che supportino la genitorialità ma anche di una riforma dei sensi e del cuore

Nursery di ospedali che si svuotano, scuole che faticano ad attivare le classi prime, università che si interrogano su come contrastare il calo imminente delle iscrizioni. Oggi, 20 novembre, celebriamo la Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, un’età che si fa sempre più rara nel nostro paesaggio sociale. Non mi soffermo sulle cause della crisi demografica né sulle ricadute economiche e previdenziali, ma sull’impatto culturale di questo fenomeno epocale. Il Novecento è stato chiamato il secolo dell’infanzia. Ha saputo dare dignità, riconoscimento e diritti a un periodo della vita prima liquidato ad anticamera dell’età adulta. Bambine e bambini sono diventati persone a tutti gli effetti, cittadini che hanno il diritto di istruirsi, curarsi, giocare, immaginare, coltivare talenti. Con lo smantellamento del lavoro minorile e l’estensione del diritto all’istruzione, è sorta una nuova età della vita, libera da funzioni specifiche e responsabilità. Su questo terreno di nuove norme, istituzioni dedicate e pratiche educative, si è diffusa anche una cultura dell’infanzia, età vulnerabile che necessita di tutele particolari e al contempo ricca di risorse e specificità: un suo senso del tempo, un suo sguardo sul mondo, una sua capacità di gioco e immaginazione sorprendentemente trasversali a culture diverse. Sono le costanti culturali dello sviluppo che vediamo all’opera nei bambini che disegnano sotto le bombe a Gaza come a Kiev, o nei minori sbarcati a Lampedusa che dietro a un pallone ritrovano giocosità e leggerezza. Oggi l’infanzia è in buona parte invisibile ai nostri occhi e non solo a causa del drastico calo delle nascite o delle dinamiche migratorie. I bambini mancano nelle nostre famiglie allargate, nei condomini, nei cortili. Strade e piazze sono precluse al gioco libero, talvolta con espliciti cartelli di divieto. Crescono hotel e ristoranti “children free”, luoghi dove devono regnare rigorosamente quiete e silenzio. Persino le chiese si attrezzano talvolta con salette separate per evitare che i più piccoli disturbino le funzioni.
L’infanzia sopravvive sul web e sui social, ma anche lì volti e gesti vengono spesso oscurati in nome di una giusta tutela e privacy. Il risultato è che perdiamo confidenza con il mondo dei bambini, fatichiamo a leggerne i bisogni e ci manca l’alfabeto per comprendere il valore dei diritti loro dedicati. Il dibattito culturale non aiuta di certo a riprendere confidenza col tema. L’agenda politica è tendenzialmente indifferente a un target poco interessante dal punto di vista elettorale. Una parte del movimento ambientalista vede nella riduzione delle nascite una strategia per contenere l’impatto ecologico. Le battaglie femministe difendono il diritto delle donne di non avere figli. Paradossalmente, per motivi in parte giusti o ragionevoli, ci ritroviamo a vivere in questa parte di mondo il primo secolo “senza infanzia”, fenomeno che nasconde molteplici insidie. Senza infanzia cambia infatti anche il nostro modo di essere adulti. Qualità fondamentali come la premura, la cura, la tenerezza si coltivano a contatto con i piccoli. Un fenomeno che i primatologi osservano da sempre: i cuccioli hanno il potere straordinario di trasformare il nostro assetto ormonale e di spingere esemplari adulti a prendersi cura della prole. Una dinamica fondamentale per la sopravvivenza della specie e che, nel genere umano, dovrebbe estendersi oltre la cura dei propri figli o consanguinei. Da circa quindici anni mostro ai miei studenti in università un documentario che racconta il primo anno di vita di quattro bambini in diverse parti del mondo. Un tempo la proiezione suscitava una reazione immediata di tenerezza e sintonizzazione emotiva: sorrisi e vagiti dei neonati attivavano una risposta ancestrale. Di recente noto reazioni più fredde e distaccate. È come se quel “bonus” evolutivo che la natura ci ha dato per proteggere l’infanzia si fosse affievolito o disattivato. Vi leggo una più generale disabitudine a sentire e immaginare le vite degli altri. Abbiamo un gran bisogno di riforme che supportino la genitorialità nelle sue molteplici forme, inclusi affidi e adozioni, esperienze di accoglienza per minori non accompagnati e famiglie di profughi, capaci di costruire il futuro insieme a noi. Ma abbiamo bisogno anche di una riforma dei sensi e del cuore, che restituisca a uomini e donne di ogni età la capacità di percepire vulnerabilità e potenzialità di ogni infanzia, vicina o lontana.
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