Se la guerra in Ucraina diventa questione secondaria
A 40 mesi dall'invasione russa, il conflitto sembra cronicizzarsi mentre il mondo guarda da un'altra parte. Ormai il futuro di Kiev è diventato solo un pretesto per parlare di riarmo

Il tarlo dell’abitudine corrode l’attenzione nei confronti della guerra in Ucraina. Sono 40 mesi, quasi tre anni e mezzo, che la guerra su larga scala va avanti. Ma per gli ucraini la guerra è iniziata nel 2014: quindi tantissimo tempo. Altre drammatiche crisi geopolitiche incombono, tra tutte il Medio Oriente con Gaza e lo scontro bellico tra Iran e Israele, al quale si sono aggiunti gli Stati Uniti. La scoppiettante politica della presidenza americana conquista le prime pagine dei giornali. Il contenzioso con l’Europa sui dazi scalda gli animi. I governi europei sono alla ricerca di un rapporto con Washington, come anche la dirigenza dell’Ue e quella della Nato, qualche volta eccedendo in toni adulatori. La guerra in Ucraina sembra cronicizzarsi; viene relativizzata; non è più emergenza. Il presidente Zelensky è invitato ai principali summit occidentali, quasi una presenza di rito. Ma l’Ucraina resta sullo sfondo. È piuttosto il pretesto per ReArm Europe (pudicamente ribattezzato Readiness 2030), che si staglia sempre più come l’obiettivo esistenziale dell’Unione Europea. Obiettivo tanto europeo nella retorica, quanto nazionale nella sostanza.
La questione dell’Ucraina non è più quella di un Paese in guerra, ma diviene quella di una pronosticata futura guerra tra Russia e Paesi della Ue, data per certa da alcuni con nordica precisione, con tanto di mese e anno. È tornata la guerra, hanno detto e scritto non pochi, in alcuni casi con malcelata e insensata soddisfazione. Si dice sia realismo, più spesso è ideologia di chi la realtà della guerra non la conosce, o tutt’al più la prende in considerazione a distanza, online. Dulce bellum inexpertis, scriveva Erasmo da Rotterdam: «La guerra è dolce per coloro che non la conoscono». Sembra quindi che dagli eventi ucraini non si possa che ricavare un messaggio bellicoso: bisogna prepararsi alla guerra, perché la pace si ottiene solo con la forza. Eppure, non occorre grande erudizione storica per ricordare come l’intera Europa all’inizio del Novecento si fosse preparata alla guerra, avesse realizzato possenti operazioni di riarmo, ma l’esito non fu la salvaguardia della pace: gli europei arrivarono come sonnambuli all’agosto del 1914 e fu l’inizio di un trentennio devastante di guerre. La cronicizzazione della guerra non pare essere percepita come un dramma. Si pensa che ciò che è cronico non sia urgente. È un approccio che emerge anche in ambito umanitario. Nelle agenzie di cooperazione a livello internazionale si osserva una tendenza a limitare l’emergenza umanitaria alle regioni dell’Est e del Sud dell’Ucraina, prossime alla linea del fronte, certamente aree di grande sofferenza e bisogno. La capitale, Kiev, non è più considerata obiettivo di azione umanitaria, nonostante i frequenti e sanguinosi bombardamenti o i circa 400.000 sfollati presenti in città. Sembra si voglia ritenere che non sia l’intera Ucraina a essere in una condizione di crisi umanitaria complessiva. Troppo grande e troppo a lungo! Alla fine si finisce per pronosticare una emergenza militare di lungo periodo mentre si ridimensiona l’emergenza umanitaria. Eppure basta andare a Kiev per toccare con mano la realtà della guerra. Per vedere le devastazioni dei bombardamenti: 28 morti nella notte tra il 16 e il 17 giugno, 10 morti nella notte tra il 22 e il 23 giugno. Per scorgere il dolore negli occhi di chi è stato toccato dalla guerra. Per ascoltare le storie piene di sofferenza degli sfollati, costretti a lasciare le loro case nelle zone coinvolte dai combattimenti. Per percepire l’angoscia delle notti di paura, che si ripetono da 40 mesi.
La resilienza degli ucraini, che desta profonda ammirazione, e il loro dolore, non meritano l’abitudine e la rassegnazione alla guerra. Anzi, la cronicizzazione della guerra richiede un sussulto etico e politico. Per porre fine alla guerra non c’è bisogno di altra guerra. C’è bisogno di cercare la pace. Oggi, guardando l’Ucraina, si comprende bene come sia facile dare inizio a una guerra e quanto difficile porle conclusione. Ma tale consapevolezza non può giustificare la rassegnazione. Una guerra cronicizzata rappresenta il principale pericolo di contagio, una escalation che può condurre a una guerra più grande. È il tempo per la pace. Per cercare di aprire vie di dialogo, di negoziato autentico, serio, che possano condurre alla pace. Non è una via facile e lineare. Probabilmente sarà tortuosa e non rapida. Ma questo richiede un surplus di impegno, di energie, di intelligenze, di volontà politica, di iniziativa diplomatica. Le parti sono su posizioni inconciliabili, si osserva spesso, e quindi un negoziato non è possibile. Tuttavia, è ovvio che le posizioni di partenza siano inconciliabili, ma questo non è mai un ostacolo a un processo negoziale che ha proprio come scopo di superare l’iniziale irriducibile opposizione. C’è troppa fretta nel dichiarare fallimentare in partenza ogni tentativo di negoziato. I percorsi negoziali non sono mai semplici e rapidi. Sarebbe ingenuo pensare che non sia così. Ci vuole tempo. Le trattative tra Stati Uniti e Vietnam, con alti e bassi, durarono cinque anni. Speriamo che per l’Ucraina durino molto meno, ma non si può pensare che un negoziato si risolva in un tempo breve, secondo le esigenze della comunicazione. Investire sulla guerra sembra più facile, ma oggi ci occorre il coraggio per investire nella pace cioè nel futuro. C’è bisogno di un’audacia intelligente per non rassegnarsi alla guerra in Ucraina e cercare con perseveranza percorsi di pace per quel Paese e quel popolo martoriati.
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