Scegliere il futuro: Europa al bivio tra due Occidenti

Se cede sui principi, l’Europa perde sé stessa. Ma se ha il coraggio di rilanciare la propria visione, avrà già vinto. Per tutto ciò serve il coraggio di dirci in quale Occidente vogliamo vivere
September 17, 2025
Scegliere il futuro: Europa al bivio tra due Occidenti
REUTERS | La bandiera Ue riflessa su un edificio a Bruxelles
Ci sono momenti in cui la Storia accelera e non concede riparo. Un attimo prima sembra ancora possibile tornare a una rassicurante normalità, un attimo dopo siamo già sull’orlo dell’abisso. È accaduto tante volte nel secolo scorso. Potrebbe accadere di nuovo, se non avremo la capacità di leggere il presente e di scegliere la strada da percorrere.
Il futuro dell’Europa non si decide solo nei vertici di Bruxelles o nei discorsi sullo Stato dell’Unione. Si decide nella capacità di non rassegnarsi al ruolo di periferia del mondo, restando come un vaso fragile in mezzo a potenze d’acciaio. Mario Draghi lo ha ripetuto con ostinata pazienza a Bruxelles: «Per la sopravvivenza dell’Europa dobbiamo fare ciò che non è mai stato fatto prima e rifiutarci di essere trattenuti da limiti autoimposti». Parole nette, che avrebbero dovuto scuotere chi ancora si riconosce nella tradizione europeista italiana. La verità è che non siamo più dentro l’ordine nato dopo il 1945 e neanche all’interno degli equilibri sorti dopo il 1989 che si sono ormai dissolti.
Gli Stati Uniti oscillano tra apertura e isolamento, vittime di enormi tensioni anche interne che stanno sfociando nella violenza e finiscono per mostrare quanto sia fragile la democrazia quando viene ridotta a spettacolo; la Cina avanza con un modello di capitalismo e di efficienza autoritaria estremamente efficace, che attrae per rapidità, ma sacrifica libertà e diritti; la Russia ripropone logiche imperiali e aggressive. Il resto del mondo – dall’India, al Brasile, ai Paesi africani – mostra giustamente scarso interesse per quel che avviene dalle nostre parti.
In questo scenario, l’ulteriore novità è che non esiste più l’Occidente per come eravamo abituati a conoscerlo, ma due diversi Occidenti: da un lato l’America che ha scelto di isolare e di isolarsi, dall’altro l’Europa che appare smarrita, quasi ripiegata a custodire i privilegi del passato per garantirsi un futuro. Ma non è la geopolitica a condannarci: è la nostra esitazione, la nostra difficoltà a credere ancora nella nostra missione. Un’esitazione che rischia di farci scivolare in una marginalità silenziosa, quasi compiacente.
Troppo spesso abbiamo ridotto l’Unione a un mercato, una moneta e un insieme di regole tecniche. Ci dimentichiamo che è nata come promessa di pace, libertà e giustizia sociale che ha permesso a generazioni di europei di crescere senza più conoscere il volto devastante dei conflitti che avevano insanguinato il continente. Quella promessa non può diventare un ricordo lontano.
Ma proprio mentre il mondo ci chiede decisione, in Italia e in Europa sembriamo aver perso la bussola: da noi, né il governo né l’opposizione offrono una rotta chiara. Come se nel momento più difficile fosse possibile sopravvivere senza scegliere, come se l’inerzia potesse sostituire la responsabilità. Ma quando la Storia accelera, l’inerzia diventa complicità.
Il rischio è quello di ridursi a spettatori senza voce, mentre altri usano la forza per dettare le regole: sul commercio, sull’energia, sulle migrazioni, perfino sui diritti fondamentali. Così l’Europa rischia di diventare provincia, irrilevante e subalterna. Per evitarlo, però, non basta proclamare i valori, bisogna incarnarli. Non basta evocare la pace, bisogna farne progetto politico. Non basta invocare l’uguaglianza, bisogna costruirla giorno per giorno. Come ci ricordava Stefano Benni, «bisogna assomigliare alle parole che si dicono».
Oggi, la partita decisiva si gioca sulla tecnologia. Le grandi piattaforme – le cosiddette big tech – non sono più soltanto imprese, ma poteri globali che plasmano opinioni, mercati e perfino relazioni sociali.
Chi controlla i dati controlla le persone, e chi controlla le persone controlla la democrazia. L’Europa è stata l’unica a tentare di imporre limiti allo strapotere delle multinazionali digitali: dal Gdpr al Digital Services Act fino all’AI Act, ha ricordato che l’innovazione deve restare a misura di persona. L’Europa è stata la prima ad avere il coraggio di trasformare dichiarazioni di principio in diritto.
Ma le regole, da sole, non bastano. Servono infrastrutture comuni, ricerca condivisa, investimenti adeguati. Serve avere il coraggio di costruire piattaforme digitali europee che non siano subalterne ad algoritmi scritti altrove e che custodiscano la nostra identità democratica, che proteggano i dati dei cittadini e non siano strumenti di manipolazione, ma di partecipazione.
Senza sovranità tecnologica, oggi non può esserci neanche sovranità politica. Potrà sembrare un’utopia, e invece è la condizione per non essere subalterni e difendere la nostra libertà.

È questa la sfida che ci consentirà anche di misurare la grandezza del nostro modello europeo, fondato su diritti, limiti al potere e tutela della persona. È un modello lento, complesso, imperfetto, che appare fragile di fronte all’efficienza muscolare delle autocrazie o alla brutalità del populismo americano. Ma è proprio in quella complessità che stanno la sua forza e la sua grandezza. È nel coraggio di fare della democrazia lenta una risorsa e non un difetto. È nella capacità di utilizzare il diritto per limitare la forza, per far convivere differenze, per bilanciare poteri, per trasformare il conflitto in regola. È nel mostrare che dove i suoi principi vengono affermati le persone tornano al centro delle scelte della politica e sono più libere di affermare i propri desideri, i propri sogni e di inseguire la propria felicità.
Se cede sul terreno dei principi, l’Europa perde sé stessa. Ma se ha il coraggio di rilanciare la propria visione, allora avrà già vinto.
Per tutto questo serve avere il coraggio di dirci apertamente in quale Europa e in quale Occidente vogliamo vivere. Cosa davvero vogliamo per gli anni a venire. Non serve qualche strumento occasionale che ci consenta di affrontare pragmaticamente il prossimo problema. Serve una visione complessiva. Un sogno. Serve il coraggio di rinunciare agli egoismi nazionali che paralizzano ogni decisione comune. Serve il coraggio di una politica comune – almeno tra Paesi che si mostrino capaci lavorare assieme – che sappia muoversi per investire nell’istruzione, nella cultura, nella ricerca, nell’ambiente e nell’innovazione; una politica capace di liberare la forza delle nostre imprese senza tradire i diritti. Serve la capacità di parlare con una sola voce sulle grandi sfide internazionali, dalla pace alla transizione ecologica, dalle disuguaglianze alla regolazione della tecnologia. Non è un’utopia: è una necessità: senza questa capacità l’Europa resterà prigioniera della sua subalternità; con essa, invece, potrà ridare senso al suo progetto e alla vita di milioni di cittadini.
Non possiamo attendere che siano altri a decidere quale posto riservarci nel mondo. Tocca a noi scegliere se essere potenza o provincia, comunità di destini che potranno ancora una volta tracciare un sentiero condiviso per il futuro o somma di egoismi che ci condanna all’irrilevanza. Ogni nostra esitazione oggi è come una promessa tradita alle generazioni future.

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