Riconoscere la Palestina? Ecco perché non basta

Non sarà una cerimonia allle Nazioni Unite a ridare la speranza a un popolo martoriato. Occorre una reale tutela, e una pressione economica maggiore su Israele perché rispetti il diritto umanitario
August 3, 2025
Riconoscere la Palestina? Ecco perché non basta
ANSA | La bandiera della Palestina
Mentre si è avviato un tardivo e insufficiente tentativo di alleviare la catastrofica emergenza umanitaria a Gaza, la vicenda dello “Stato palestinese” è già diventata un unicum nella storia mondiale. Esso dovrebbe esercitare la propria sovranità sulla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e la Striscia di Gaza, in base ad accordi internazionali e risoluzioni delle Nazioni Unite. Sulle 193 nazioni presenti all’Onu, 147 lo riconoscono ufficialmente e altre si apprestano a farlo. Ma se l’Autorità nazionale palestinese (Anp), nata dopo gli accordi di Oslo firmati da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat nel 1993, è oggi formalmente preposta all’amministrazione civile, di fatto i due tronconi di territorio non collegati e per gran parte occupati militarmente da Israele dal 1967, ora rischiano paradossalmente di perdere ogni residua autonomia. Proprio quando l’Europa, di fronte alla carestia a Gaza provocata dall’offensiva di Tel Aviv, ha rotto gli indugi e, seppur in ordine sparso, ha deciso di sostenere ufficialmente l’entità statuale che oggi ha sede a Ramallah, la morsa su ciò che incarna uno Stato, al di là delle dichiarazioni di principio, sembra stringersi ogni giorno di più.
Solo gli Stati Uniti, ormai, rimangono ostili a un passo diplomatico che ha forte valenza politica e simbolica, ma di fatto non rappresenta, oggi, un’autentica svolta nella tragedia che si sta consumando nei 360 chilometri quadrati affacciati sul Mar Mediterraneo, dove sono rinchiuse, sotto le bombe, affamate e prive di cure, due milioni di persone.
Quale Stato potrà costituirsi su macerie e distruzioni, laddove la popolazione viene costretta a spostamenti forzati, mentre in Cisgiordania una quota crescente di coloni israeliani si fa sempre più aggressiva e attacca, sostanzialmente impunita, le comunità locali, comprese quelle cristiane?
In questo quadro, la decisione del presidente francese Emmanuel Macron è stata coraggiosa e al contempo un modo “facile” di mostrare che non si rimane inerti dinanzi alla morte per inedia di tanti bambini che potremmo facilmente nutrire e assistere. Coraggiosa, perché ha rimesso in moto il processo dei riconoscimenti che l’assenza di una politica estera europea comune aveva messo da parte a causa delle divisioni fra i 27 membri (altri Paesi si erano mossi prima di Parigi, il loro peso è però minore). “Facile”, perché non costa molto, escluse le ruvide rimostranze del governo Netanyahu, scrivere qualcosa sulla carta senza agire concretamente per indurre il premier israeliano a rivedere la propria linea dura. Bollando la scelta come “favore ad Hamas”, lo stesso Benjamin Netanyahu rivela di considerare la crisi in corso come una pura operazione antiterrorismo, in cui la tutela delle sorti della popolazione civile non ha alcuno spazio.
Sono importanti gli atti formali e le parole (oggi alcune figure tra le più rispettate nello Stato ebraico non esitano più a parlare di “genocidio”), eppure in questo frangente si impongono azioni più circoscritte e dirette. Siamo in una fase cupa nella quale è doverosa la critica alla guerra condotta a Gaza, e dobbiamo tuttavia restare più che vigili per non permettere il riaffiorare di odiose manifestazioni di antisemitismo.
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha indicato in maniera esemplare come la condanna delle stragi (non più semplice errore) deve evitare in ogni modo la colpevolizzazione di una religione e dei suoi fedeli, pena ricadere nella barbarie cui abbiamo assistito nella Seconda guerra mondiale. L’esitazione del nostro esecutivo a seguire i principali partner europei (compresa la Gran Bretagna) sulla via del riconoscimento dello Stato di Palestina potrebbe essere giustificata se si proponesse un’altra via per interrompere uno dei conflitti più sanguinosi, costato la vita finora a quasi il 3% della popolazione della Striscia (come se in Italia fossero morte un milione e settecentomila persone), con il rischio di un repentino peggioramento se le forniture alimentari non riprenderanno a pieno ritmo. Che cosa vogliamo fare come singolo Paese e come Europa? I lanci di viveri nelle quantità attuali non appaiono per nulla risolutivi.
Posto che la sicurezza di Israele non va messa a rischio, consentire che un numero sufficiente di camion delle Nazioni Unite con derrate e medicine abbiano accesso a Gaza non sembra attualmente una minaccia. In questo momento, allentare unilateralmente la presa sulla Striscia significherebbe indebolire ancora di più il consenso ad Hamas, che attraverso la sua criminale ostinazione nel non rilasciare gli ostaggi del 7 ottobre contribuisce alla tragedia della propria gente. Ecco allora che la pressione su Netanyahu e i suoi alleati interni va esercitata con maggior determinazione ora. Non sarà una solenne cerimonia al Palazzo delle Nazioni Unite a ridare la speranza a un popolo martoriato, come già oggi avere in mano il passaporto palestinese (che pure sarebbe motivo d’orgoglio) non basta per varcare le frontiere.
A pesare davvero potrebbero invece essere sospensioni di accordi militari e commerciali (non quelli sulla ricerca scientifica, si spera, nel momento in cui alcune università israeliane hanno preso posizione critica verso i propri rappresentanti politici). Ancora una volta, non si tratta di boicottare una nazione amica, ma indurre un governo a ripristinare la legalità internazionale e rispettare il diritto umanitario. Il percorso verso due Stati, qualunque ne siano le forme e i tempi, passa necessariamente dalla salvezza della popolazione che dovrebbe abitare uno di essi.

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