Quando il Fisco finanzia i morosi
I condoni fiscali come la rottamazione delle cartelle minano la fiducia e l’equità: premiano i furbi, demoralizzano gli onesti e indeboliscono lo Stato, generando un circolo vizioso d’infedeltà

«L’unico condono efficace è l’ultimo», scrivevano Robert Barro e David Stockman qualche anno fa sul Wall Street Journal, con l’ironia di chi conosce bene la debolezza della volontà dei governi in materia fiscale. E di «ultimi condoni», in Italia, ne abbiamo avuti molti. Era l’11 novembre del 2005 quando l’allora ministro delle finanze Giulio Tremonti, prometteva solennemente a Tito Boeri, che in Italia non ci sarebbero stati più condoni fiscali. Il 16 luglio del 2009, lo stesso Giulio Tremonti, diventato nel frattempo ministro dell’economia illustrava alla stampa i dettagli del nuovo condono fiscale che riguardava non solo coloro che avevano portato illecitamente capitali all’estero ma anche chi aveva commesso reati di bancarotta fraudolenta, falso in bilancio, ricettazione e riciclaggio. Barro e Stockman avevano provato, inascoltati, a far notare che ogni volta che un governo promette che sarà davvero l’ultima occasione per mettersi in regola, il risultato è solamente quello di rafforzare l’idea opposta: che pagare puntualmente le tasse sia un atto da ingenui, e che prima o poi una nuova sanatoria arriverà a rimettere tutto in discussione. Questi giorni le audizioni di Banca d’Italia e Istat in Commissione Bilancio hanno tratteggiato luci e ombre della nuova legge di bilancio, più ombre che luci a dire il vero. Ma tra le voci ascoltate in Parlamento, la più severa è stata quella della Corte dei Conti, che ha messo nero su bianco ciò che Barro e Stockman, assieme a molti altri, sostengono da tempo: le reiterate «rottamazioni» e le cosiddette «paci fiscali» – adesso il termine condono non va più di moda – finiscono per minare la fedeltà fiscale e la stessa equità del sistema tributario, con il rischio che il fisco si trasformi in «un finanziatore dei morosi». È una diagnosi che indica una resa morale, prima ancora che tecnica. Ogni condono, infatti, produce un effetto demoralizzante. Demoralizza chi ha rispettato le regole, perché vede premiato chi non lo ha fatto. Demoralizza lo Stato, che confessa la propria impotenza nel far valere le leggi. E demoralizza l’intero corpo civico, che impara la lezione sbagliata: che in Italia la convenienza non sta nel rispetto delle leggi, ma nell’attesa strategica e nell’inerzia furba. E il cittadino razionale, dinanzi a un fisco che periodicamente sconta le colpe e premia i ritardi, si adatta. Sospende il pagamento, accumula, aspetta il prossimo «saldo e stralcio». È un classico caso di azzardo morale indotto dallo Stato: più si tollera l’infedeltà, più la si alimenta.
Ma se almeno sul piano contabile i condoni funzionassero, e invece neanche quello. Come rileva sempre la Corte dei Conti nel suo ultimo rapporto, «le quattro rottamazioni varate dal 2016 ad oggi hanno portato nelle casse dello Stato un gettito di 28,9 miliardi rispetto a un introito stimato di 111,2 miliardi, pari al 26%». Un quarto di quanto promesso, e con l’effetto collaterale — osservano ancora i giudici contabili — di «una presumibile perdita degli introiti da riscossione ordinaria», che avrebbero incluso anche sanzioni, interessi e aggio. In altre parole: poco incasso subito, e meno entrate in futuro. Ogni sanatoria crea aspettative di nuove sanatorie, e queste aspettative riducono la propensione spontanea a dichiarare e versare. È un circolo vizioso che svuota la credibilità dello Stato e condanna il fisco alla fragilità permanente. Insomma, la Lega di Salvini, principale sostenitore di questo provvedimento, si "compra" i voti degli evasori - che in Italia, come si sa, sono un partito piuttosto numeroso -... e lo fa con i soldi dei contribuenti onesti. Un bell’affare, non c’è che dire. Ma la fedeltà fiscale non è solo un dovere civico: è un bene pubblico fondato sulla reciprocità. Io pago le tasse perché confido che gli altri faranno lo stesso e che lo Stato userà quelle risorse con giustizia. Quando questo capitale fiduciario viene eroso – per inefficienza, per disuguaglianza o per eccessiva indulgenza verso i morosi – il danno non è solo contabile, è morale. E i danni morali, si sa, non si riparano per decreto. Quando lo Stato rinuncia alla coerenza, quando considera la disciplina fiscale un ostacolo al consenso, non fa altro che minare la propria legittimità. Così, da mezzo secolo, in Italia si perpetua la stessa illusione: incassare qualcosa subito e voltare pagina. Ma quella pagina non si volta mai davvero. La convenienza dell’evasione resta intatta, la fedeltà fiscale si indebolisce, e lo Stato continua a chiedere ai cittadini un impegno che esso stesso sembra non prendere più sul serio.
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