Perché anche quella di un assassino non è una vita a perdere

Il suicidio in carcere di Stefano Argentino, che aveva ucciso Sara Campanella a marzo, contiene una cupezza straordinaria. Chi ne risponderà, se tutti sembrano aver già dimenticato?
August 7, 2025
Perché anche quella di un assassino non è una vita a perdere
Ansa |
Scivola lentamente verso il basso sui siti dei quotidiani il suicidio in carcere di Stefano Argentino, assassino a marzo, a Messina, di Sara Campanella, 22 anni, studentessa di Medicina. Lui, innamorato non corrisposto, ne era ossessionato. 27 anni, da mesi era recluso a Messina. Evidentemente soggetto a rischio suicidio – proposito già espresso ai genitori la sera dell’omicidio –, era stato in regime di sorveglianza speciale. Poi, sembrando più tranquillo, Argentino era stato rimesso in cella con due compagni. Martedì alle cinque di sera è rimasto solo, e si è impiccato.
Come scivola giù nei titoli questa storia terrea. In fondo, solo un assassino: cinque premeditate coltellate a una ragazza che forse un anno fa gli aveva, per una volta sola magari, sorriso. E Stefano aveva perso la testa: la inseguiva ovunque, e quei continui, sfinenti messaggi sul cellulare. Sara sempre più netta nel “no”. Lui ormai come un’ombra, appostato negli angoli ad aspettarla. Finché il 31 marzo lei scrive alle amiche: «C’è il malato che mi insegue». Pochi istanti, le coltellate. Strazianti, il giorno dopo, le parole della mamma: «Eri la mia cometa, ora giro nel vuoto». Straziante anche la pena dell’altra madre, cui il figlio quel 31 marzo confessa di volere morire.
Lo aveva detto chiaro. Lo aveva ripetuto. Tutto il dramma di Stefano, dalla ossessione all’omicidio al desiderio di morte, sembra innestato da uno stato psicotico. Tuttavia, il suo avvocato afferma di avere chiesto al gip una perizia psichiatrica, che sarebbe stata negata. Perché, come è possibile, ci si chiede. Un vuoto a perdere. Così è stato trattato un ventenne evidentemente malato dai magistrati, dalla direzione del carcere, insomma: dallo Stato. Nelle cui prigioni i suicidi si susseguono, normale amministrazione. Dall’inizio dell’anno, oltre 40.
Ma questo di Messina contiene in sé una cupezza straordinaria. C’erano un anno fa due ragazzi, che si sono incontrati. Forse, all’inizio, Stefano a Sara era sembrato simpatico. Lui, quel suo sorriso non aveva più potuto scordarselo. Lo rivoleva a qualsiasi costo, era ormai la ragione della sua vita. Era qualcosa forse che sanava il vuoto profondo che, senza saperlo, aveva dentro? E morta lei, nulla aveva più senso. Lo aveva detto subito a sua madre, che voleva morire. Gli antipsicotici sono da decenni in commercio, uno psichiatra avrebbe potuto fermare, se non l’omicidio di Sara, almeno l’autodistruzione di un ragazzo. Sì, di un femminicida. Un malato che aveva solo 27 anni. I genitori di Sara hanno detto ieri di un grande dolore. Umani almeno loro, pure lacerati dal lutto. Ma i giudici, per la perizia non fatta, e quelli che hanno lasciato Argentino da solo, risponderanno forse di qualcosa?
Come un vuoto a perdere. Su questi due ragazzi si allarga una cappa di disperazione assoluta. Lei cancellata a 22 anni, lui rinchiuso e buttato via.
Abbiamo appena visto la moltitudine dei giovani dal Papa, a Roma. Contro alla luce di quella festa, la fine di Sara e Stefano è il buio di due buchi neri. E questi due? E quanti sono, non visti, quelli nello stato mentale di Stefano? Quasi ogni giorno una giovane donna muore per un “no” E giù decreti legge, e braccialetti elettronici. Ma sembra evidente che siamo oltre la cronaca nera, e dentro a un problema educativo e sociale urgente. Quale rabbia cova, nel terzo millennio, in alcuni figli verso le donne, e da dove viene, e come fermarla? Cercare almeno di cominciare a capire.
Prima, assolutamente prima: guardando bene negli occhi quei figli. E, perfino dopo. Perché non finisca come a Messina, in un apparente trionfo della morte. Lo avessero curato, gli avessero offerto una mano, una faccia, a Stefano. Sì, un assassino. Misericordia anche per un assassino. Per lui e per noi, che stiamo a guardare queste due vite finite così presto, e non dovremmo rassegnarcene. La disperazione va riconosciuta e fermata all’origine. O come una sostanza tossica, inavvertita, si allarga. Paura, odio, rabbia, sono reazioni umane. Ma sopra a tutto almeno pietà, alla fine, per Sara e anche per Stefano – come un figlio che si è perso nel buio.

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