Per l'Ucraina una pace da adulti. Oltre il riarmo
È difficile contestare il fatto che, stante Trump al potere e le tensioni internazionali, l’Europa debba attrezzarsi meglio per difendersi e per sostenere Kiev. Ma deprime la rapidità con cui troppi governi hanno buttato a mare le idee cardini su cui avevamo costruito l’idea di Europa

Dicono i contrari alle spese militari che, in fondo, San Francesco mica lo ammazza il terribile lupo di Gubbio: gli parla e lo convince a diventare mansueto. Vabbè, ma era appunto S. Francesco, e trattava con un lupo non con Putin, rispondono gli altri: dinanzi alle sue minacce e al rischio di un’aggressione russa all’Europa, non vi è altra strada del riarmo e di sostenere l’Ucraina nella sua legittima volontà di continuare a difendersi. Chiunque creda fortemente nella pace come valore universale, ma si confronti con le dinamiche geopolitiche del mondo, non può che trovarsi come smarrito fra queste due visioni, che si fatica a conciliare. Viviamo in anni cupi, in cui il sistema internazionale sembra aver riabbracciato la legge della giungla, ove sei preda o predatore, mentre il mondo appare solo anarchia e minaccia. Per un lungo periodo, noi europei abbiamo coltivato l’idea che la guerra fosse infine uscita dal nostro orizzonte, per rimanere confinata nelle periferie del Sud Globale, o legata a anacronistiche e feroci identità etniche o settarie, come nella ex Jugoslavia. E che le esigenze di difesa fossero garantite dagli Stati Uniti, permettendoci di dedicare risorse marginali alle spese militari, mentre l’Europa si poneva come un attore internazionale che promuoveva il multilateralismo e i diritti umani.
L’invasione dell’Ucraina nel 2022 e, sia pure in modo diverso, il conflitto che ha devastato Gaza, hanno demolito queste certezze. Ci siamo ritrovati con la guerra “in casa” e poi, con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, l’ombrello difensivo garantito dagli Usa si è fatto più incerto. Da qui un ritorno ruggente all’idea che solo la forza militare esibita possa proteggerci dalla guerra. È difficile contestare il fatto che, stante Trump al potere e le tensioni internazionali, l’Europa debba attrezzarsi meglio – e quindi spendere di più – per difendersi e per sostenere l’Ucraina. Anche perché il progresso tecnologico sta mutando velocemente la “grammatica” dei conflitti, con la guerra che è divenuta ibrida, più sfuggente e multiforme. Ma quanto impressiona, e francamente deprime, è la rapidità con cui troppi governi e troppi pensatori europei abbiano buttato a mare le idee cardini su cui avevamo costruito l’idea di Europa e delle relazioni internazionali. Abbiamo dismesso con superficialità l’idea del multilateralismo e della primazia delle Nazioni Unite, constatando che “l’Onu non funziona”. Senza considerare che le sue difficoltà sono il frutto del boicottaggio sistematico fatto da regimi e governi che perseguono politiche di pura potenza, invertendo ipocritamente causa ed effetto. Assistiamo a scelte pericolose e discutibili di riarmi massicci come quelli della Polonia – ossessionata dal rischio russo – e della stessa Germania: centinaia di miliardi spesi in armi, creando altro debito o tagliando la spesa sociale, e vagheggiando il ritorno alla leva obbligatoria, come se fossimo ancora a inizio secolo XX. Dinanzi a una guerra ibrida, che richiede specialisti cyber o altamente specializzati, immaginiamo che i nostri giovani si addestrino alla peggio per difendere con il sangue “i sacri confini della patria”, per riprendere la retorica del nazionalismo ottocentesco.
Il ReArm Europe, ossia il progetto europeo di investire somme enormi nel riarmo, mostra questa miopia irragionevole: invece di immaginare la difesa europea come una piattaforma modulare che condivida il più possibile la logistica e le infrastrutture, si va verso il rafforzamento su base nazionale: tanti piccoli eserciti con duplicazioni costose e inutili, dato che le meschine rivalità fra gli stati e la difesa delle industrie nazionali condiziona le scelte e ci spinge a ricreare eserciti dal sapore novecentesco. Ma quanto sgomenta maggiormente è la scelta di diffondere la paura come strumento di mobilitazione: l’enfasi sulla necessità di prepararsi alla guerra, le raccomandazioni di dotarsi di kit contro attacchi nucleari o di conservare scorte in caso di invasione, dimostrano la necessità di convincere una riluttante opinione pubblica europea, che non sembra credere troppo alla retorica bellicista. I politici sanno bene, del resto, che la paura è lo strumento principale per spingere i popoli ad accettare l’emergenza e le “misure eccezionali”: è nella palude del terrore che nascono i mostri della tirannia e della disumanizzazione dei comportamenti.
In aggiunta, vi è anche la demonizzazione della diplomazia e della ricerca di dialogo: folle pensare che con il nemico non si negozia. È proprio con l’avversario ostile, che sembra sordo a ogni ragionamento, che si devono cercare le vie – anche le più ardue – per stabilire dei rapporti e per promuovere soluzioni. E ciò non significa negare l’esigenza della difesa e di investire maggiormente nel settore militare. Ma allo stesso tempo va ribadito che le armi sono un mezzo estremo, mai un fine. E che il volano diplomatico, del promuovere la pace è lo strumento principe in cui credere. Riconoscere l’esigenza di investire nella difesa non significa negare il valore di una pace, che – se vuole essere davvero pace e non solo armistizio – deve necessariamente essere disarmante: disarmare la mente e il cuore prima ancora che il braccio. Senza necessariamente obbligarsi a essere come San Francesco, ma neppure come il cacciatore di lupi.
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