Per Leone il pensiero cristiano deve essere luogo di incontro tra culture
di Paola Muller
Nel messaggio al congresso di filosofia di Asunciòn il Papa ha invitato a riscoprire la «fede che cerca intelligenza», perché credere non è un limite del pensare, ma il suo inizio autentico

Nel suo recente messaggio al congresso internazionale di Asunción, in Paraguay, sul pensiero filosofico cristiano papa Leone XIV richiama Agostino: «Chiunque ritiene che la filosofia si debba evitare in senso assoluto, pretende semplicemente che noi non amiamo la sapienza» (De ordine, I, 11,32). È una citazione che colpisce per la sua limpidezza e per la sua attualità. Non è un semplice omaggio al passato. È la chiave di un intero orizzonte: la fede, se è viva, non teme la ragione, perché è essa stessa amore della sapienza. Il Papa indica con chiarezza la via per un rinnovato umanesimo: un incontro tra fede e intelligenza che rifiuta sia il fideismo che il razionalismo. Da un lato chi teme la filosofia come minaccia alla purezza della fede; dall’altro chi esalta la ragione fino a crederla autosufficiente. Entrambe le posizioni conducono a una sterilità spirituale. Tra questi estremi, Leone XIV propone di riscoprire la «fede che cerca intelligenza», eredità viva del Medioevo e, in particolare, della tradizione agostiniana e anselmiana. Per Agostino, credere non è un limite del pensare ma il suo inizio autentico. «Credo ut intelligam»: la fede è la luce che rende possibile la visione, non un velo che la oscura. La ragione, senza la grazia, diventa cieca o presuntuosa; con la fede, è risvegliata e orientata al vero. Leone XIV torna a questa lezione quando denuncia l’antica illusione pelagiana: credere che basti la volontà umana per giungere al bene e alla verità. Anche oggi riaffiora la stessa tentazione nel razionalismo moderno, che confida nella pura analisi e nell’autonomia dell’intelletto.
Ma per Agostino la verità non è conquista della ragione isolata: è un dono che si accoglie e che suscita il desiderio di comprenderlo sempre più. La fede non chiude il pensiero, lo apre. È questa la radice dell’umanesimo cristiano, dove l’intelligenza è onorata proprio perché riconosce di non bastare a sé stessa. Nel Medioevo questa intuizione diventa metodo. Anselmo d’Aosta la traduce nella formula celebre: «fides quaerens intellectum», la fede che cerca intelligenza. Non è un motto teologico, ma una vera antropologia spirituale. L’uomo, per Anselmo, è un essere che pensa perché crede e crede meglio quando pensa. La fede è il respiro della ragione e la ragione è la voce che la fede leva a Dio. La ricerca della verità è per Anselmo un atto di riconoscenza: un “grazie” espresso con l’intelligenza. Nei suoi dialoghi egli non parte dalla Scrittura come da un’autorità che chiude la discussione, ma come da un orizzonte che suscita domande. Così, nel Proslogion, dopo aver argomentato sull’esistenza di Dio, il monaco si ferma a pregare: «Ciò che prima ho creduto per un tuo dono, ora per la tua illuminazione lo comprendo» (Proslogion, IV.104). Il pensare è preghiera che si fa intelletto. Leone XIV ritrova in questa tradizione medievale la chiave per il dialogo di oggi. Quando invita i credenti a essere «pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza» che è in loro (1 Pt 3, 15) propone un pensiero che non si difende ma si offre: la verità come incontro, non come possesso. Accanto ad Agostino e Anselmo, il Papa richiama anche l’insegnamento di Tommaso d’Aquino, vertice dell’armonia medievale tra fede e ragione. Nel pensatore domenicano, la fede non distrugge la natura ma la porta a compimento: «Gratia non tollit naturam, sed perficit» (Summa Theologiae, I,1,8 ad 2). In questa formula si riassume la fiducia più profonda dell’umanesimo cristiano: l’uomo, creato da Dio, porta in sé una ragione che non è nemica della fede, ma sua alleata. Tommaso mostra che la fede non è un’aggiunta esterna all’intelligenza ma la sua pienezza. La ragione naturale può conoscere il vero, ma non da sola: ha bisogno di essere elevata da una luce superiore. La grazia non mortifica le potenzialità umane, le libera. Per questo l’Aquinate può difendere insieme l’autonomia della filosofia e la sua apertura alla teologia.
Oggi, osserva Leone XIV, la cultura contemporanea vive una crisi di fiducia nella ragione: il rifiuto della trascendenza, il nichilismo, il relativismo, la negazione dell’anima, la paura del futuro. Di fronte a questa «angoscia esistenziale», il pensiero tomista offre una risposta: l’uomo può conoscere e sperare perché la sua intelligenza partecipa della luce divina. L’umanesimo cristiano, così inteso, restituisce alla ragione la fiducia nella verità e alla fede la fiducia nella ragione. Leone XIV insiste sul fatto che la filosofia cristiana non è un esercizio solitario ma un luogo di incontro. Già nel Medioevo la riflessione cristiana nacque dal dialogo con i filosofi greci e arabi, con le scienze e con la vita dei monasteri e delle università. Il pensiero cristiano non teme l’altro, ma lo assume come occasione di verità. «Il pensiero filosofico – afferma il Papa – diventa uno spazio di incontro privilegiato con quanti non condividono il dono della fede». Il filosofo credente non impone ma propone; non chiude ma apre. In un’epoca segnata dal sospetto e dalla frammentazione, la filosofia cristiana può tornare a essere il luogo del dialogo tra le culture, perché parte da una fiducia: la verità è comune, non privata. Il richiamo di Leone XIV alla «grazia che illumina ogni intelligenza» suona come un invito a riscoprire il senso umano del pensare. La modernità ha spesso confuso il razionale con il misurabile, il pensiero con il calcolo. Ma la ragione, se non si apre alla trascendenza, si riduce a tecnica. I grandi maestri medievali mostrano che la ragione non è un potere che si oppone alla grazia ma un dono che la grazia risveglia. La fede diventa la forza che spinge a comprendere il reale, a distinguere il bene dal male, a riconoscere nella struttura del mondo la traccia del Creatore. È un invito a credere ancora nella potenza della mente umana, ma di una mente che sa di essere abitata da un Altro.
Nel finale del suo messaggio Leone XIV invita a situare il pensiero cristiano «nell’insieme delle grandi tradizioni di pensiero», perché la fede parli un linguaggio comprensibile al mondo contemporaneo. È la libertà che Agostino descriveva in questi termini: non si ama la verità perché la si è conosciuta in questo o quel filosofo, «ma perché è la verità, anche se nessuno l’avesse mai conosciuta» (Lettera a Dioscoro, 118, IV, 26). Il Medioevo lo ha mostrato con forza: la fede non fu allora nemica del pensiero, ma la sua ispirazione più alta. Oggi, quando il relativismo dissolve le certezze e il nichilismo erode la speranza, quell’eredità torna urgente. L’umanesimo cristiano conserva la forza di dire all’uomo che la sua intelligenza è buona, che il mondo è intelligibile, che la verità è una presenza. Nel tempo delle intelligenze artificiali e del disincanto metafisico, Leone XIV invita a un nuovo atto di fiducia: nella grazia che non cancella la natura, ma la compie; nella ragione che non pretende di essere assoluta, ma desidera la verità; nella fede che, per comprendere meglio il suo Signore, osa ancora domandare. «Non cerco di comprendere per credere – scriveva Anselmo – ma credo per comprendere» (Proslogion, I.100). È l’immagine più bella di una fede che pensa: un pensiero che prega, una preghiera che ragiona, un umanesimo che non rinuncia alla verità dell’uomo perché confida nella luce di Dio.
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