Non possiamo non avere speranza: siamo tutti uniti dallo stesso dono

Sperare è ciò che avvicina credenti e non credenti, è il punto di incontro tra tutti gli umanesimi nella ricostruzione morale della società. Non farlo sarebbe come rifiutare la vita stessa
September 27, 2025
Non possiamo non avere speranza: siamo tutti uniti dallo stesso dono
Daisy Daisy |
Caro direttore, accolgo volentieri il tuo invito a una riflessione sul tema della speranza, che è stato al centro del Giubileo. Credo che “sperare” sia davvero ciò che unisce credenti e non credenti, e possa far incontrare tutti gli umanesimi in uno sforzo di ricostruzione morale della nostra società. Il messaggio del Giubileo è stato perciò di grande importanza anche civile, oltre che religiosa. L’indebolirsi nel tempo del messaggio di speranza della Chiesa è infatti una delle cause della crisi italiana. Mentre il diffondersi di sentimenti di disperazione, l’opposto della speranza, è all’origine di quello scetticismo cinico ed egoista che sempre più tende a cancellare la nozione del bene comune. È quando va in crisi la speranza che si afferma infatti il nichilismo, che annulla la profondità della storia, e schiaccia l’uomo sul presente e sul suo dolore. In questi tempi abbiamo davanti agli occhi alcuni degli effetti più gravi di questa crisi antropologica. Il ricorso sempre più frequente, ingiustificato, protervo, all’uso delle armi per risolvere le controversie internazionali, che cosa altro è, se non un riflesso della perdita della speranza?
Solo la totale distruzione di ogni speranza di convivenza pacifica può infatti far credere nella guerra permanente come garanzia di sicurezza, a Gaza come in Ucraina. Ma vale anche in altri ambiti. Oggi si parla di una legge per la “buona morte”. Che ai nostri giorni vuol dire suicidio assistito o eutanasia, comunque un modo per liberarsi dal momento estremo del trapasso. Eppure, c’è stato un momento nella storia, all’inizio dell’era moderna, in cui il momento della morte era piuttosto considerato come la prova suprema di una vita, il cui esito avrebbe guadagnato all’essere umano la salvezza eterna o l’avrebbe condannato all’eterna dannazione. L’arte di ben morire, alimentata dalla speranza, diventò allora oggetto dell’iconografia, le cosiddette “artes moriendi” del XV e XVI secolo. Paolo invitava i cristiani a non affliggersi «come gli altri che non hanno speranza». Ma se sperare è un bene perché rende migliore anche la vita terrena, allora come spiegarsi il declino della fede in Occidente? La spiegazione sta forse nel fatto che per un filone importante della cultura europea, da Feuerbach a Freud a Nietzsche a Marx, la speranza è solo un’illusione o un auto inganno, e l’umanesimo è ciò che l’uomo può realizzare con le sue forze limitate. Il declino della speranza ha segnato così la storia europea. Ma una società che non ha più fiducia in sé stessa è anche meno capace di grandi imprese. E riprende a credere nei falsi idoli: ce ne sono in giro molti, di questi tempi. Ne è scaturita una concezione dell’uomo come superuomo, capace di farcela da sé nel cercare salvezza e felicità; che alla fine si è però ribaltata nel suo contrario, producendo un rassegnato catastrofismo, una visione apocalittica del futuro, che penso abbia un ruolo non secondario anche nella crisi evidente delle nuove generazioni, le quali si definiscono spesso, nelle analisi sociologiche condotte su di loro, per l’appunto “derubate della speranza”.
Mentre invece sperano e hanno bisogno di sperare anche coloro che non hanno fede. Per loro (per noi) la speranza è come l’aveva descritta Filone Alessandrino: «Una gioia prima della gioia, e seppure imperfetta rispetto alla gioia piena, è tuttavia superiore a quella che deve sopraggiungere per due aspetti: allevia e addolcisce il peso degli affanni e annuncia in anticipo l’arrivo del bene nella sua pienezza». Chi non ha fede non ha certezza che «quel bene nella sua pienezza» alla fine arriverà. Ma che cosa sarebbe la nostra vita già qui e ora, in questo mondo, se non potessimo sperare? Qualche tempo fa un ministro italiano, di fronte all’ennesima tragedia del mare e alla morte di bambini innocenti, osservò che per quanto lo riguardava neanche la “disperazione” l’avrebbe mai spinto a mettere a repentaglio la vita di un figlio. Suonò come un rimprovero a quei poveri derelitti che avevano affrontato un tale rischio per cercare sulle nostre coste una nuova vita. Ma in realtà mostrava invece, a mio parere, di non aver compreso quale forza irresistibile può spingere un uomo a mettere in gioco tutto sé stesso, e perfino i figli. Questa forza è la speranza. Non la disperazione, che anzi abbatte, induce all’inazione e all’apatia, può portare al suicidio, materiale o morale. È la speranza che fa affrontare i mari e le intemperie. Che spinge a osare. Perfino il marxismo e l’anelito rivoluzionario che ha introdotto nella storia non sarebbero mai potuti esistere senza una speranza di palingenesi. «Allora perché ci si alza la mattina?», chiede Ernst Bloch all’amico Theodor W. Adorno. Per lui il «principio-speranza» è il fondamento antropologico dell’uomo e lo spirito vitale di ogni utopia, la forza attiva che spinge al cambiamento. È dunque del tutto accettabile, anche per un non credente, l’affermazione di Benedetto XVI: «Chi ha speranza vive diversamente, a chi spera è stata donata una vita nuova». E il perché ce l’ha spiegato il più grande dei filosofi: Immanuel Kant.
L’ultima delle tre celebri domande della filosofia di Kant sulla condizione umana, «Che cosa posso sapere?», «Che cosa devo fare»? «Che cosa mi è lecito sperare», ottiene infatti questa risposta: «Mi è lecito sperare che esista un Dio». Attenzione: ciò che gli interessa non è provarne l’esistenza, solo la fede può farlo; ma provare che è lecito sperarlo, anche con gli strumenti della ragione. In sostanza, Kant argomenta che gli imperativi morali ai quali l’uomo deve obbedire per essere davvero libero sono estremamente più forti e appaganti se possono, per così dire, afferrarsi all’esistenza di un Dio: «Il sistema della moralità - afferma il filosofo - non ha bisogno né dell’idea di un altro essere superiore all’uomo perché questi conosca il suo dovere, né di un motivo diverso dalla legge stessa affinché la osservi»; pur tuttavia, aggiunge, «un libero arbitrio che all’azione progettata non aggiunge l’idea di alcun oggetto… pur conoscendo come deve agire, ma non verso qual fine, non basta a se stesso… Senza dunque un Dio, e senza un mondo per noi invisibile ma sperato, le idee sovrane della moralità sono bensì oggetti di approvazione e di ammirazione, ma non motivi di proposito e di azioni». Insomma, se non si può almeno sperare di diventare pienamente felici, condizione che solo la ricompensa futura dell’immortalità può regalarci, perfino la legge morale perde efficacia, e il formidabile sistema etico del filosofo del «dover essere» rimane monco, non si regge su una totale autosufficienza. La liceità della speranza non solo ci rende la vita terrena più accettabile, perché rasserena e consola l’essere umano di fronte ai mali del mondo, ma – come nota Chiara de Luzenberger – lo motiva; giacché proprio la «speranza di tempi migliori, senza la quale un autentico desiderio di fare qualcosa di proficuo per il bene universale non avrebbe mai ravvivato i cuori umani, ha sempre anche avuto influsso sull’agire degli uomini retti». Queste cose, anche per i non credenti, è stato possibile pensarle solo dopo l’avvento del Cristianesimo. Nel mondo classico, infatti, la Speranza era piuttosto una Dea capricciosa e ambigua (Elpìs per i Greci, Spes per i Romani). Nel mito raccontato da Esiodo stava nel Vaso che Pandora sciaguratamente apre, lasciandone uscire tutti i mali che una volta liberati affliggeranno l’uomo per l’eternità. Ma la Speranza resta al di sotto dell’orlo, Pandora fa in tempo a richiudere il Vaso, e diventa così l’antidoto dei mali con i quali prima conviveva.
È il Cristianesimo a trasformarla invece in una virtù teologale, insieme alla Fede e alla Carità. Virtù che solo la Rivelazione poteva portare in dono agli uomini, che non facevano parte del mondo precedente. La sua forza deriva dal fatto che è basata sulla promessa del Salvatore: «La nostra speranza è così certa che è come se già fosse divenuta realtà. Non abbiamo infatti alcun timore, poiché a promettere è stata la Verità, e la Verità non può ingannarsi né ingannare», scrive S. Agostino nel Commento ai Salmi. Da allora è dunque possibile, giusto, direi quasi obbligatorio sperare. Rifiutare un dono divino sarebbe infatti davvero imperdonabile, anche per chi non crede in Dio. Un po’ come rifiutare la vita.

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