Milan-Como in Australia, la follia del calcio senza casa
Per la prima volta una gara di Serie A verrà disputata all'estero. Tra ragioni di marketing, interessi vari e globalizzazione, resta molto amaro in bocca

Si può lecitamente pensare che sia una stupidaggine, e che ormai nulla sia più folle della realtà. Oppure rassegnarsi al fatto che il calcio sia definitivamente entrato in un’orbita dove il paradossale non esiste. Ed evitare di indignarsi più di tanto, specie in tempi occupati da pensieri e problemi ben più gravi e urgenti. Resta il fatto che la partita di campionato italiano tra Milan e Como l’8 febbraio prossimo si giocherà in Australia.
La motivazione se non una logica, ha una sua logistica innegabile: lo stadio di San Siro (sì, proprio quello in nome del quale a Milano politici e pallonari si scannano da almeno un lustro) in quel periodo sarà impegnato per la Cerimonia inaugurale delle Olimpiadi Invernali, e non esisterebbe un altro impianto sufficientemente capiente per sostituirlo. Perché non Perth allora? In fondo è solo a 13mila km di distanza, e raggiungibile in appena 20 ore di volo. Che mai sarà?
Il trasloco, ora diventato ufficiale dopo che era sembrata prima una barzelletta e poi un’ipotesi balzana, ha ricevuto il definitivo benestare dell’Uefa. Sarà la prima volta nella storia per la nostra Serie A, ma il massimo organismo calcistico europeo ha tenuto a precisare che si tratta di una decisione “presa in via del tutto eccezionale”, specificando che “non potrà in nessun caso rappresentare un precedente”. Chiara la ragione: dopo la frantumazione di orari e calendari, ormai prassi consolidata, è forte il timore di trasformare i campionati in baracconi da circo ancora più improbabili degli attuali, dove chi acquista l’abbonamento allo stadio non sa in anticipo come, quando (e ora nemmeno dove) potrà assistere allo spettacolo per cui ha pagato.
Ovviamente nulla accade per caso: la Football West australiana, fiutata l'occasione, ha presentato una ricca offerta alla Lega di Serie A per accaparrarsi quello che evidentemente considera un evento. Il Milan in fondo, in Australia ha un buon seguito. E il nuovo e ambizioso Como (di proprietà indonesiana) vuole farsi conoscere fuori dai propri confini. L’affare vale complessivamente 12 milioni di euro, compresa la copertura per i costi di viaggio e soggiorno) e non solo per le due squadre coinvolte. Se i rossoneri otterranno la fetta maggiore, anche per compensare il mancato incasso da botteghino, e ovviamente in seconda battuta il guadagno più alto sarà dei lariani, quel che resterà sarà suddiviso tra tutti gli altri club di Serie A. Abbonati rimborsati, diretta tv salva, e fuso orario che verrà piegato alle esigenze di audience. Tutti soddisfatti, dunque. Che problema c’è?
Quelli che ragionano “avanti” dicono che il calcio, oggi, è uno spettacolo globale, e pensare di mantenerlo confinato è anacronistico. Portare una partita di Serie A dall’altra parte del mondo è marketing, certo, ma anche diplomazia sportiva che trasporta la passione italiana dove cresce la domanda di calcio europeo. E in un mondo dove le squadre inglesi e spagnole si contendono mercati globali, restare fermi sarebbe un errore.
Ecco allora il derby lombardo-brianzolo piazzato dove non avresti immaginato mai, specchio del pallone moderno che insieme ai raccattapalle ha abolito la sua sacralità pagana, e la passione locale: è un tour mondiale, un po’ come i Rolling Stones, ma con meno rughe, meno chitarre e più sponsor. Lontano non solo nel cuore, ma pure nella geografia.
Dettagli? Probabilmente no. Perché il calcio vive di identità, di territori, di quel legame viscerale tra una città, la sua gente e la sua squadra. Un Milan-Como a Perth non fa crescere la Serie A: la snatura. Non conquista nuovi tifosi, ma rischia di allontanare quelli veri, quelli che il calcio lo respirano nei bar, nei quartieri, negli stadi. Forse non abbiamo bisogno di esportare partite, ma di ricostruire appartenenza, emozione e credibilità per evitare di ritrovarci con uno sport globalizzato ma senz’anima, un prodotto da vendere ovunque, ma senza più un posto che possa chiamarsi casa.
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