L'impegno dell'Onu e il ruolo dell'Anp per la fragile tregua a Gaza

Serve un piano di training e trasferimento di capacità alle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese. Inglobando il più possibile i miliziani di Hamas in unità di polizia sotto stretto controllo
October 21, 2025
L'immagine mostra Gaza City in macerie
Gaza City /Reuters
La fragile tregua di Gaza in questo fine settimana ha ondeggiato, poi sbandato paurosamente con la decisione di Israele di bombardare nuovamente e di interrompere il flusso di aiuti umanitari, e infine – grazie alle pressioni americane – sembra essere tornata in carreggiata. Verso dove stia andando è ancora difficile capirlo, in realtà. Ogni giorno, stiamo toccando con mano i tanti limiti dell’Accordo in 20 punti di Trump, celebrato dal grande meeting di Sharm el-Sheikh come l’attesa “pace eterna”, quando è ancora solo un fragile e nebuloso armistizio. Per rafforzarlo ‒ evitando che si ripiombi nella catastrofe dei quotidiani massacri di questi ultimi due anni – serve l’impegno vigile e costante della comunità internazionale, ma occorre anche comprendere come i pericoli risiedano nelle complessità dei passaggi tecnici dell’accordo. Il passo probabilmente cruciale per la riuscita del piano è il disarmo di Hamas. Un obiettivo sacrosanto e auspicato da chiunque voglia offrire una prospettiva di pace credibile per la Palestina. Ma in geopolitica, e tanto più nel controllo militare del territorio, il vuoto non esiste. Ritiratesi le forze militari israeliane dalle macerie della Striscia, era facilmente immaginabile che i miliziani del movimento islamista avrebbero ripreso il territorio, andando a sfidare quei clan e gruppi tribali che a loro si opponevano, sostenute e armate all’uopo da Israele.
Hamas non svanirà al tocco di una bacchetta magica; la catastrofe dell’invasione anglo-americana in Iraq del 2003 ci insegna in proposito tante cose, fra cui l’evidenza che eliminare tutte le preesistenti forze di sicurezza armate, per pessime che siano, favorisce solo l’anarchia e le violenze criminali. Non basta dire che la sicurezza a Gaza sarà gestita dalle forze di una Autorità Transitoria internazionale: quale stato rischierà a lungo la vita dei suoi soldati mandandoli allo sbaraglio fra le rovine di Gaza in un contesto così incontrollato? Quanto si potrà fare invece – e i Carabinieri italiani sono fra i più bravi al mondo – è avviare un programma di training e di trasferimento di capacità e metodi che rafforzi la polizia e le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), inglobando il più possibile i miliziani di Hamas in unità di polizia sotto stretto controllo dell’Anp e delle forze internazionali. Lo slogan “Hamas deve essere distrutta” serve solo all’ultradestra al potere a Tel Aviv per giustificare i crimini di guerra commessi in questi anni. Hamas è un’ideologia che si alimenta con la violenza e con il clientelismo verso una popolazione privata di tutto. È la possibilità di vivere una vita dignitosa in pace che la depotenzia. Una forza militare di interposizione internazionale è certo necessaria. Ma mantenere la pace ove vi sono solo macerie è un progetto che espone i soldati inviati a rischi seri e continui, se non vi è la volontà di entrambe le parti di rispettare il cessate il fuoco. Lo scenario operativo sarebbe molto più pericoloso di quello di Unifil, ossia la forza di peacekeeping attiva fra Israele e il Libano da decenni, dato che si opererebbe in un contesto urbano. Soprattutto, sarà necessario affiancare il peacekeeping in senso stretto, con un esteso programma di “post confict institution building”, ossia di ricostruzione delle istituzioni e delle capacità amministrative e di sicurezza tramite una lunga azione di mentoring e di formazione. Il tutto, comunque, da attivare sotto formale mandato Onu e – cosa auspicabile – su richiesta formale della stessa Anp, così da chiarire a tutti, palestinesi per primi, che il mondo riconosce la sovranità palestinese su Gaza.
Infine, va compreso che questa attività di ricostruzione fisica, politica, amministrativa e securitaria – che probabilmente prenderà decenni e che sicuramente costerà cifre spaventosamente alte – deve implicare l’obbligo per Israele di fermare la distruzione sistematica di ogni infrastruttura a Gaza. Perché in questi due anni di guerra, le forze militari dello Stato ebraico, in nome della lotta ad Hamas, hanno raso al suolo case, scuole, università, ospedali, biblioteche, infrastrutture energetiche, con il risultato di cancellare Gaza come moderna realtà urbana. Pensare che le monarchie del Golfo, l’Europa, le grandi potenze asiatiche (gli Usa, è chiaro, daranno pochissimo) investano decine di miliardi senza alcuna garanzia è del tutto velleitario. Tanto più se Washington e Tel Aviv continuano a delegittimare l’Anp quale forza di governo dei palestinesi e a non capire, assieme a pochi altri, che lo stato di Palestina deve diventare una realtà riconosciuta per avere una pace reale e, magari, davvero “eterna”.

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