L’attesa (che libera) di un bimbo: la forza creativa della maternità
Un figlio non si “fa”, si accoglie. La gravidanza non è un tempo neutro, sospeso, ma un periodo di trasformazione profonda. Che rivela un femminile spesso frainteso: né passivo né rinunciatario, ma capace di far crescere la vita

«Aspettare un bambino» è una bella espressione; dire «sono incinta» è diverso dal dire «aspetto un bambino», perché esprime molto meglio la verità di ciò che sta accadendo: dice che bisogna mettersi in attesa di qualcuno che arriverà, e prepararsi ad accoglierlo. L’inizio di ogni gravidanza è un momento delicato, perché la scoperta di essere incinta, anche quando un figlio è desiderato e cercato, è accompagnata quasi sempre anche da sentimenti di ambivalenza. La donna pensava di “fare un bambino”, e all’improvviso percepisce in modo sconcertante che quel figlio non è in realtà qualcosa che “lei fa”, ma piuttosto qualcosa che “si fa in lei”. Una nuova creatura ha preso vita, e continuerà a crescere nel corpo della mamma con una forza vitale propria, indipendente dalla sua volontà. Il vincolo che li unisce presenta da subito una forza inaspettata, imprevista e disturbante, perché sembra obbligarla dal profondo di sé; il bambino può apparirle allora come qualcuno che rischia di fagocitare il suo corpo e tutta la sua vita con bisogni che appaiono sproporzionati e possono farle paura.
Con il concepimento la donna inizia a portare in sé il germe di una vita potenzialmente già completa (niente la madre può aggiungere o togliere alla sostanza di quel bambino) e che tuttavia ha bisogno di nove mesi per prendere la sua forma definitiva. L’inizio della gravidanza perciò non è (come siamo indotti a credere) un momento neutro in cui la donna è ancora sola con sé stessa e con il suo corpo, e l’inconscio conosce bene un’altra verità: il concepito è già presente come figlio, e non è possibile una posizione neutra o astratta: si può solo decidere se accogliere o rifiutare la concreta esistenza di uno specifico singolo figlio (quello e solo quello) che in lei ha già cominciato a vivere. La scelta che la donna compirà non potrà essere una scelta solo per sé.
Accogliere un figlio non è mai una cosa del tutto facile, perché richiede la disponibilità ad effettuare un vero salto di qualità nella propria vita. Un figlio comporta una discontinuità nel nostro modo di essere, perché accoglierlo significa dare spazio ad una novità che, pur originando da noi, non potremo mai davvero controllare. E’ un’apertura al nuovo e all’inedito, e come tale non è mai esente da imprevisti, fatiche e pericoli. Un figlio ci obbliga a venire a patti con le nostre fantasie di controllo, ad accettare il rischio, a seguire piste nuove, a lasciarci mettere in gioco dalla fantasia della vita più che dai nostri progetti. Ci obbliga a mettere in conto anche la possibilità del dolore, obbligandoci a diventare più adulti.
L’ambivalenza della mente si rispecchia anche nel corpo della madre, che nei primi mesi di gravidanza cerca un nuovo adattamento, a volte segnalando la sua fatica con piccoli disturbi. Ha preso vita una nuova piccola persona che, se le diamo la possibilità, continuerà a crescere nel corpo della mamma con una forza vitale propria, che sfugge al suo controllo: nella gravidanza il confine tra il sé della madre e il sé del bambino è labile, e il corpo deve fare spazio a una creatura sospesa tra il sé e il non-sé. La madre deve contenere e proteggere questa vita che va differenziandosi, e che dovrà trovare un proprio spazio fisico e mentale all’interno dello spazio fisico e mentale della madre. Da lei arrivano al bambino non solo ciò che è necessario per il suo corpo (nutrimento, difese…), ma anche una grande quantità di sensazioni, che vengono percepite in modo precoce anche se non sono ancora pensabili; il sistema tattile e propriocettivo è il primo a svilupparsi, seguito lentamente da quello gustativo, olfattivo, uditivo e infine visivo: la mamma è come un terreno che può dare (o no) pieno benessere, preparando (o no) nel migliore dei modi il bambino all’incontro con lei che avverrà dopo la nascita. La gravidanza è simbiosi che prepara la relazione: essere in due è un processo che richiede tempo, e che si realizzerà poco alla volta dalla nascita in poi, col lavoro di entrambi.
Ma la gravidanza vissuta bene non è solo un tempo buono per il bambino: è invece anche una grande opportunità per la mamma e per la coppia, opportunità purtroppo oggi quasi del tutto ignorata per un modo di leggere il femminile poco capace di valorizzarne la specificità. Forse il problema inizia con la lettura del femminile che emerge nel pensiero freudiano. “La teoria classica (leggo nel Dizionario critico di psicoanalisi di C. Rycroft) tende a supporre che la femminilità sia essenzialmente connessa con la passività e col masochismo e che la psicologia femminile si accentri sulla difficoltà che comporta accettare una posizione di impotenza”.
Come possono le donne riconoscersi in questo? E come accettare la più femminile delle scommesse, la maternità, se questa si associa all’idea di ridursi a un’accoglienza passiva, di rinunciare all’affermazione lavorativa, e di ripiegarsi in un mondo limitato e subordinato? Ecco allora che siamo indotte a legare l’idea di un figlio (quando desideriamo metterlo al mondo) con l’idea di un “fare”: un atteggiamento attivo che contrasti il timore della passività, e dal quale risulti evidente che non accettiamo di perdere nemmeno per un momento il controllo della nostra “vera” vita. Purtroppo oggi il pensiero che la gravidanza possa essere un tempo buono e fecondo anche per la crescita personale è un concetto lontano anni luce dal modo di sentire degli uomini e delle donne: il “tempo dell’attesa” diventa così un “tempo perso”, una perdita di tempo; al massimo si possono dedicare tempo e pensieri agli aspetti organizzativi, come il corredo per il bambino, o la ricerca di un Nido che possa accoglierlo presto; pensieri, appunto, sul “fare”. Il mondo del lavoro ci fa sentire che se siamo incinte siamo un problema, e ci fa temere di venire penalizzate, di perdere qualche occasione importante quando facciamo un bambino. Non possiamo concederci il lusso nemmeno di desiderarlo, questo tempo speciale: voler fare la mamma sembra qualcosa di cui vergognarsi un po’, così come desiderare un tempo per prenderci cura di noi stesse e di ciò che sta accadendo dentro di noi, e per rallentare un po’ i ritmi rispetto alla consueta frenesia della vita.
Invece, accettare di essere il terreno buono di una vita nuova non è affatto una condizione passiva, e non rappresenta neppure uno stato di subordinazione e di totale disponibilità ai bisogni di un figlio vissuto come inquilino invadente; la donna che “aspetta” non è passiva, e la sua accoglienza non è subordinazione né sottomissione. La gravidanza è (o può essere) uno straordinario tempo di crescita, un tempo in cui anche l’inconscio attraverso i nostri sogni ci parla della possibilità di sviluppare inedite dimensioni del Sé. E’ il tempo in cui possiamo riconoscere e sperimentare di possedere uno specifico potere buono e generativo, che può moltiplicare il potenziale femminile, arricchendo la donna di competenze spendibili in tutte le relazioni: familiari, lavorative, sociali.
Il tempo non è sempre uguale a se stesso, e la gravidanza rappresenta un periodo di discontinuità dal tempo ordinario; un periodo potenzialmente straordinario, prezioso e irripetibile sia per il bambino che per la madre. Quando investe su una buona gravidanza, la donna, anche se rimanesse completamente ferma o del tutto inattiva (cosa peraltro davvero improbabile!) sta davvero intensamente “lavorando”, e non solo per sé: sta preparando il futuro, e sta costruendo le basi per lo sviluppo migliore dell’uomo e della donna di domani. Il messaggio giubilare sul riposo della terra è un bel messaggio soprattutto per le donne, che sentono con la terra una grande consonanza: è un invito a ricordare che dobbiamo rispettare i nostri ritmi vitali, dare importanza a ciò che davvero ce l’ha, prenderci il tempo che serve perché la vita si sviluppi e le relazioni fioriscono. Una battaglia di civiltà per uomini e donne insieme.
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