«L'amicizia e l'amore incontrati in carcere un segno della Misericordia»
Il percorso di Paolo Amico, che 35 anni fa partecipò all’omicidio del giudice Livatino. «Nella vita di un uomo ci sono volti e incontri che possono dare una direzione nuova all’esistenza»

Gli anni passati finora in galera sono trentacinque, diciassette dei quali in regime di carcere duro. Sta scontando l’ergastolo nella Casa di reclusione di Opera, alle porte di Milano. Condanna pesante, come pesante è il reato, come pesante è il fardello che continua a gravare sul cuore per ciò che ha fatto. Paolo Amico aveva 23 anni quando partecipò al gruppo di fuoco che il 21 settembre del 1990 uccise il giudice Rosario Livatino mentre andava al lavoro in auto lungo la statale Caltanissetta-Agrigento. «Ero un giovane spavaldo e incosciente, nel nostro ambiente circolava voce che lui era nemico della Stidda (il gruppo mafioso dominante nella zona di Agrigento, ndr) ed era invece benevolo nei confronti di Cosa Nostra: per questo dovevamo ucciderlo. Non era vero, ma accettammo di farlo in obbedienza cieca alle leggi del mondo malavitoso nel quale vivevamo». A 35 anni dal delitto, riavvolge il nastro della sua vita per raccontare il percorso che l’ha portato a diventare un’altra persona. Senza nulla cancellare del passato – «cosa impossibile», come lui stesso riconosce – ma per testimoniare che «nella vita di un uomo ci sono volti e incontri decisivi che possono dare all’esistenza una direzione nuova». Lui li chiama «volti e incontri di salvezza». Li ricorda bene, e li mette in fila. «Il primo è legato ai miei genitori e ai miei fratelli, al dono di un affetto senza limiti che si è rivelato decisivo negli anni più difficili, quelli passati nel carcere di massima sicurezza di Pianosa in regime di 41 bis. In quel luogo era facile cadere nella disperazione, sia per le condizioni di detenzione particolarmente severe, sia per la prospettiva di una carcerazione che non avrebbe mai avuto fine. Ma la vicinanza dei familiari è stata lo scoglio a cui mi sono aggrappato durante la lunga tempesta che stavo attraversando». Nel 2013 il trasferimento al carcere di Voghera, la partecipazione a un laboratorio teatrale che lo costringe «a uscire dalla tana in cui mi ero rifugiato, a mettermi in gioco di fronte agli altri e a scoprire i miei talenti». Dopo un lungo periodo di osservazione, nel 2018 l’educatrice che lo segue propone i primi permessi premio. Sempre in quegli anni, la decisione di riprendere gli studi. «Da piccolo odiavo la matematica, con i professori avevo un rapporto molto conflittuale, l’abbandono della scuola è stata una delle cause che mi ha portato a entrare in giri malavitosi». In carcere si iscrive al corso di ragioneria e incontra Daniela, l’insegnante di lettere con la quale nasce un’amicizia intensa, che non viene interrotta neppure dal trasferimento alla casa di reclusione di Tolmezzo. «Il rapporto con lei era diventato una ventata d’aria fresca nella mia condizione di recluso, mi aiutava ad alzare lo sguardo, a guardare alla detenzione come un kayròs, un tempo opportuno per iniziare un cambiamento. La speranza tornava a fare capolino nella mia vita».
Con il passare dei mesi l’amicizia con Daniela diventa amore, e accade una coincidenza che lui rilegge come il segno di un destino buono: «Ero diventato così certo della solidità dei miei sentimenti che decisi di scriverle una lettera in cui mi dichiaravo apertamente. E grande fu la sorpresa nel riceverne una da parte sua, spedita nello stesso giorno e in cui mi scriveva la stessa cosa». Dopo tre anni arrivano la fine della detenzione in regime di 41 bis e il trasferimento alla casa di reclusione di Opera, dove il 14 luglio 2010 Paolo sposa Daniela, che da allora è compagna fedele del suo cammino. Un’altra tappa decisiva del percorso di cambiamento è l’amicizia con i volontari che frequentano il carcere di Opera, in particolare quelli dell’associazione Incontro e Presenza, nata dal carisma di don Luigi Giussani. «Ho conosciuto uomini che mettono a disposizione tempo ed energie per fare compagnia ai detenuti, la cosa più preziosa per chi vive una condizione di reclusione. È un dono sentirsi guardati come persone e non come autori di reato, condividere la convinzione che l’uomo non è il suo errore, scoprirsi tutti - noi e loro - bisognosi di misericordia. Ho incontrato un bene offerto gratuitamente, un amore speso per chi porta sulle spalle un carico di male. È stato grazie a loro che ho cominciato a capire il significato del sacrificio di Cristo». Un cammino che lo ha condotto fino a portare la croce, come segno di espiazione, durante un pellegrinaggio a piedi fatto insieme ai volontari di Incontro e presenza da Milano a Trivolzio (Pavia), dove è custodito il corpo di San Riccardo Pampuri, medico e membro della congregazione dei Fatebenefratelli, canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1989. Altro, fondamentale incontro, quello con l’educatrice che l’aveva preso in carico a Opera e che in considerazione del suo percorso lo ha candidato ai benefici previsti dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario: dopo trentatré anni la possibilità di tornare a vedere e toccare il mondo, svolgendo un lavoro all’esterno e rientrando in carcere la sera, un’esperienza che sta facendo da due anni e che ha segnato un’altra importante tappa del suo percorso. C’è una presenza silenziosa eppure tangibile che ha accompagnato l’odissea di Paolo Amico: ha il nome e il volto di Rosario Livatino, di cui il 21 settembre si celebra il trentacinquesimo anniversario della morte e che il 9 maggio 2021 è stato proclamato beato, primo magistrato a ricevere questo riconoscimento nella storia della Chiesa. «È diventato una presenza stabile nella mia vita, continuo a implorare perdono, tocco con mano che la sua intercessione ha alimentato la mia volontà cambiamento. Sembra un paradosso eppure è accaduto, forse per un disegno misterioso che ho visto prendere forma in questi anni: dal grande male di cui sono stato responsabile si è generato un percorso di bene».
Alcuni eventi hanno segnato questa presa di coscienza: il 2 ottobre 2023 Amico si è raccolto in preghiera davanti alla reliquia del magistrato (la camicia intrisa di sangue indossata il giorno dell’attentato) che aveva fatto tappa nel carcere di Pavia nell’ambito della “peregrinatio” della reliquia. E il primo giugno 2024 ha raccontato per la prima volta pubblicamente il suo percorso di cambiamento nel teatro del carcere di Opera, in occasione della presentazione di una mostra dedicata a Livatino («Sub tutela Dei», inaugurata nel 2022 al Meeting di Rimini e in seguito allestita in molte città). «È stata una testimonianza che sentivo il dovere di dare come assunzione di responsabilità, pubblica richiesta di riconciliazione e condivisione del mio cammino di ravvedimento. Desideravo raccontare che il sepolcro in cui mi ero seppellito si era aperto, e una nuova luce era penetrata nel buio della mia esistenza». In quell’occasione ha ricordato anche la commozione suscitata in lui dalle parole pronunciate dalla mamma del magistrato, Rosalia, dopo la morte del figlio: «Al giornalista che le chiedeva cosa provasse nei confronti di chi lo aveva ucciso, quella donna rispose che si metteva nei panni delle loro madri e condivideva il loro dolore per il dolore che i figli avevano procurato. Ancora nel mio cuore brucia il rammarico per non avere chiesto perdono ai genitori di Livatino: non lo feci quando erano ancora in vita, quando maturai la decisione di farlo erano già morti». A trentacinque anni dal delitto, Paolo Amico continua a fare i conti con l’abisso di male in cui era sprofondato, ma è cambiato lo sguardo sulla vita: «Sento che la misericordia di Dio ha accompagnato il mio percorso. Sono convinto che quel giorno, su quella strada, non è morto solo il giudice Livatino, è morto anche quel ragazzo spavaldo di ventitré anni, schiavo della rabbia e con il cuore avvelenato. Ho sperimentato sulla mia pelle che ci sono incontri di perdizione e incontri di salvezza che possono dare all’esistenza una direzione nuova. Il mio cammino continua, sotto lo sguardo buono del beato Livatino. E oso sperare che un giorno ci incontreremo di nuovo».
(19 - continua)
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