La tassa sugli affitti brevi: ma è davvero una "stangata"?
di Luca Mazza
La rendita immobiliare si conferma un totem e ogni tentativo di ridimensionarne la tassazione diventa una questione identitaria più che economica. Eppure, i proprietari di case non sono stati maltrattati negli ultimi anni

In Italia unire casa e tasse in un’unica norma è garanzia di terremoto politico. Anche quando si parla di spiccioli dentro a una manovra finanziaria che ha il suo maggior pregio nella cautela con cui è stata scritta. Da sempre, mattone e fisco toccano due delle corde più sensibili degli italiani: ogni nuovo intervento viene monitorato con attenzione e spesso temuto, anche quando l’impatto su tasche e conti pubblici è di modesta portata. D’altronde, giustamente, possedere un’abitazione non è considerata solo un’esigenza abitativa o un’opportunità di investimento: un alloggio, anche quando è temporaneo, può rappresentare un mattoncino su cui costruire il futuro, un simbolo di sicurezza materiale. Ma proprio per questo la querelle sull’innalzamento della cedolare secca dal 21 al 26% per gli affitti brevi gestiti tramite piattaforme come Airbnb o Booking lascia interdetti. Indipendentemente dall’esito finale che avrà la vicenda, e se l’aumento della tassa si verificherà davvero, colpisce il livello dello scontro e l’uso di termini così impropri da risultare fuorvianti.
La Ragioneria generale dello Stato stima un gettito di 102,4 milioni di euro annui a regime: una cifra modesta in una manovra contenuta, vista la portata complessiva da meno di 19 miliardi. Ma la cifra è stata sufficiente a riaccendere turbolenze politiche, persino all’interno della stessa maggioranza; dal Ministero dell’Economia hanno cercato di ridimensionare il caso, parlando di «intervento di piccola portata». Di portata più ampia, invece, uno degli obiettivi della misura, che accoglierebbe le richieste degli albergatori tradizionali: limitare gli effetti distorsivi del boom delle locazioni brevi nelle grandi città. Qui la rendita turistica spesso ha preso il sopravvento sulla funzione abitativa.
Portare la cedolare secca al 26% per gli affitti brevi, inoltre, potrebbe essere interpretato come il tentativo di avviare un minimo riequilibrio in un sistema fiscale che da anni penalizza i redditi da lavoro, in alcuni casi con aliquote superiori al 40%, a vantaggio delle rendite immobiliari (e finanziarie). Ecco perché definire questa misura una «stangata sul ceto medio» sembra davvero fuori luogo."
In fondo, il ritocco all’insù dell’imposta colpisce soprattutto chi possiede almeno un’altra casa oltre a quella in cui vive e sceglie di destinarla a locazioni turistiche, non famiglie a rischio di scivolamento in povertà. Eppure, la levata di scudi è stata immediata. Forza Italia e Lega hanno parlato di un «colpo ai piccoli proprietari», evocando possibili ricadute politiche su una platea tradizionalmente vicina al centrodestra. La realtà è diversa: la norma interessa solo una minoranza di contribuenti, in gran parte proprietari di più immobili o operatori semi-professionali del mercato turistico. Piuttosto, affrontare davvero il tema degli affitti brevi sarebbe necessario. E la leva fiscale resta uno degli strumenti più efficaci per riequilibrare un mercato che, soprattutto nei centri storici delle grandi città, tende a escludere studenti e lavoratori a vantaggio del turismo “mordi-e-fuggi”. Nel frattempo, anche la fuga di migliaia di residenti dai quartieri centrali – da Roma a Venezia, passando per Firenze - prosegue incontrastata. Finora il Codice identificativo nazionale e le regole per limitare l’invasione delle keybox non hanno rallentato più di tanto la corsa sfrenata dell’overtourism. Non può bastare quel poco che è stato fatto per contenere un fenomeno fuori controllo.
La questione diventa ancora più urgente in un Paese segnato da crescenti disuguaglianze abitative: chi possiede immobili si garantisce rendite, mentre le famiglie della classe media faticano a mandare un figlio a studiare fuori casa, travolte dai costi degli affitti impossibili anche solo per una stanza. Sull’argomento è intervenuta anche la Caritas di Roma, proponendo che eventuali maggiori introiti della cedolare secca siano destinati a strumenti concreti per sostenere affitti calmierati, contrastare gli sfratti e garantire alloggi a giovani e famiglie.
Il vero problema resta politico. La rendita immobiliare si conferma un totem e ogni tentativo di ridimensionarne la tassazione diventa una questione identitaria più che economica. Eppure, i proprietari di case non sono stati certo maltrattati negli ultimi anni: dalla cedolare secca sugli affitti tradizionali al Superbonus, le agevolazioni fiscali non sono mancate. Anche per queste ragioni, bollare come una “stangata” l’innalzamento dell’imposta sulle locazioni brevi appare una reazione sproporzionata rispetto alla sua effettiva portata. E se un domani, poi, una qualche tipologia di reale stangata dovesse sciaguratamente prendere davvero forma, come la chiameremmo?
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