La spesa per il riarmo aumenta, ma le emergenze sono molte di più
Ciò che sta per accadere con la Difesa serva da monito. Quante altre priorità, negli anni, non sono state ritenute abbastanza gravi da consentire impegni e maggiori risorse?

L’aumento della spesa militare da parte dell’Italia non getta solo ombre inquietanti sul futuro, ma ci impone di ripensare anche al recente passato. Per anni abbiamo detto e sentito dire che la capacità di spesa dello Stato italiano è già oltre il limite. Le regole di bilancio, per lo più stabilite a livello europeo, ci hanno obbligato a ricordare e non scompaginare definitivamente quanto i nostri fondamentali economici da sempre certificano: l’Italia è un Paese che, almeno dal punto di vista della spesa pubblica, vive al di sopra delle sue possibilità.
Ora però dicono ci sia una guerra alle porte, negli Stati Uniti è tornato Donald Trump e – attraverso la Nato – ci viene chiesto di raddoppiare (arrotondando per difetto) quanto il nostro Stato dedica alle armi e a ciò che ci ruota intorno. È quella che può essere presentata come una “tipica causa di forza maggiore” e che – sulla carta – autorizza a compiere scelte straordinarie. Non ha senso mettere a confronto scenari diversi su piani lontani e dagli esiti imprevedibili: il potenziale rischio di una guerra dentro l’Unione Europea o di un ipotetico conflitto nucleare non possono essere paragonati all’emergenza educativa che tiene già ora e da tempo in ostaggio il Paese; la presunta minaccia russa (e la relativa necessità di aumentare la deterrenza) non può essere messa sullo stesso piatto delle carenze strutturali con cui fa i conti oggi la sanità pubblica. Ma il dubbio resta: quante “emergenze”, negli anni, non sono state ritenute sufficientemente gravi da consentire o anche solo paventare sforzi grandi o piccoli da parte dello Stato e del suo bilancio?
La questione ha implicazioni anzitutto economiche, da cui non si sfugge: la sostenibilità dei conti pubblici è un principio inderogabile, se non altro per onestà nei confronti delle generazioni future. Ma la deroga concessa ora per il riarmo, che si aggiunge a quella – non solo legittima, ma fondamentale – della lotta alla pandemia, apre uno spazio di manovra tutto politico che non può essere ignorato. E che ci invita a guardare alla “gabbia di bilancio” con occhi un po’ diversi. Qualche numero aiuta a capire. Per il 2023 l’Istat ha contabilizzato un Prodotto interno lordo pari a circa 2.085 miliardi e una spesa pubblica che ne vale poco più della metà: il 53,7%.In pratica, la macchina statale con le sue ramificazioni locali (ma anche con gli interessi sul debito, o le pensioni) spende ogni anno oltre la metà della ricchezza prodotta nel Paese, uscite coperte per lo più dalle entrate fiscali. La parte del leone la fa la protezione sociale, che ha drenato spese per il 21,1% del Pil, seguita dalla sanità (6,5%) e dall’istruzione (3,9%). La difesa sta indietro, intorno all’1,2% del Pil, ma precede molte altre voci di spesa come la tutela dell’ambiente (0,9%) o la cooperazione allo sviluppo, inchiodata nei pressi dello 0,2%.
Cifre che vanno prese con le pinze e spesso oggetto di interpretazioni variegate, ma che danno l’idea di quanto sia difficile, ogni anno, aprire il capitolo della legge di Bilancio, di quanto le “coperture” possano turbare i sonni all’occupante di turno della scrivania di Quintino Sella, al Ministero del Tesoro. Una vera e propria gabbia in cui il Paese si è auto imprigionato nel corso dei decenni, ma che alla fine rischia di diventare un alibi per non pensare a vere politiche, coraggiose ma divisive, di svolta e sviluppo. E pensare che nel tempo si sono stratificate tonnellate di studi che hanno calcolato i diversi impatti potenziali di un incremento del supporto pubblico su questa o quella voce di bilancio. Perché se speso bene, ogni euro dello Stato può accendere ritorni – materiali e immateriali – ben superiori. L’ultimo esempio è di pochi giorni fa e arriva da Banca d’Italia: il governatore Fabio Panetta ha ricordato che nel nostro Paese la spesa universitaria cattura appena l’1% del Pil, contro l’1,3% della media europea. Allinearsi al resto del continente «renderebbe il sistema universitario più attrattivo per i ricercatori italiani e stranieri che oggi scelgono atenei esteri», ha sottolineato il governatore. Ricordando che “basterebbero” appena tre decimi di punto di Pil per disinnescare quel perverso meccanismo che oggi ci vede formare decine di migliaia di cervelli che poi emigrano, e al tempo stesso ci vede attrarre la manodopera meno qualificata.
Tornare indietro è impossibile, ma quanto sta per accadere con la Difesa possa servire almeno da monito per raddrizzare la rotta: i numeri non sono un’opinione e i conti devono essere in ordine per non rovinare (ancora di più) l’ecosistema che lasciamo in eredità ai nostri figli. Ma se l’emergenza è reale può essere trovata una risposta anche nelle pieghe del bilancio dello Stato (purché ambiziosa, argomentabile, dagli effetti garantiti). Oppure prendere atto del fatto che le contabilità nazionali da sole ormai faticano a incidere sul corso degli eventi, e che – nel caso dell’Europa – non abbiamo alternative credibili e sostenibili a un futuro di maggiore integrazione.
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