«Incontrare le vittime dei crimini mi ha cambiato la vita»
Enrico Platania, condannato all'ergastolo nel 1997 per crimini mafiosi, grazie al Progetto Sicomoro ha capito di desiderare la redenzione. Oggi esce per insegnare italiano agli stranieri

«Non conoscevo la storia di Zaccheo raccontata nel Vangelo, ma partecipando al Progetto Sicomoro ho capito che mi riguardava molto da vicino. Anche io come lui ero un malfattore, anche io come lui sono stato raggiunto in maniera inaspettata da uno sguardo di misericordia sul mio passato, e quello sguardo ha accompagnato il percorso di cambiamento che continua ancora oggi». Enrico Platania è uno dei detenuti che in questi anni hanno partecipato al Progetto Sicomoro, un percorso di giustizia riparativa promosso dall’associazione Prison Fellowship in alcuni penitenziari già prima dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, che dal 2023 ha dato piena cittadinanza a questo strumento complementare al processo penale.
Pochi giorni fa Platania ha compiuto sessant’anni, ne ha passati ventotto in galera per un cumulo di reati di matrice mafiosa di cui è stato protagonista nella Catania degli anni Novanta e che gli sono costati la condanna all’ergastolo. Nel maggio del 1997 la sua carriera criminale si è conclusa con l’arresto, un mese dopo è nato Domenico Enrico, il bimbo concepito insieme alla compagna: il nome del nonno (come da tradizione) affiancato a quello del padre che non l’avrebbe potuto vedere per molto tempo. La nascita del figlio è stato il primo duro colpo che la realtà ha inferto alla corazza che si era costruito. «L’ho tenuto in braccio quando aveva poche settimane di vita, una commozione immensa e insieme un dolore indicibile perché sapevo che non l’avrei potuto crescere. Grazie a Dio non ha seguito la strada cattiva che aveva affascinato suo padre». Parla di fascino, Enrico Platania: il fascino malato che l’ha attirato quando era ancora ragazzino - ultimo di 10 fratelli in una famiglia povera e onesta -, il fascino che assicurava guadagni facili, onore e rispetto dovuti da parte della gente, e che l’ha risucchiato nel gorgo della malavita catanese in cui ha fatto carriera, fino a diventare strumento del sistema mafioso. L’altra carriera, quella detentiva, comincia nella casa circondariale Bicocca di Catania, poi il trasferimento a Trapani dove consegue il diploma di maturità di ragioneria e infine a Tempio Pausania, in Sardegna, con l’avvio di un brillante percorso universitario che passa per la laurea triennale in filosofia (tesi su Emmanuel Lévinas) e che dovrebbe concludersi l’anno prossimo con la laurea magistrale. Durante i lunghi anni di detenzione la vita di Platania decolla verso un’altra direzione, segnata dalla passione per lo studio, tante letture, il teatro, la gestione della biblioteca, le battaglie condotte con l’associazione Nessuno tocchi Caino per i diritti delle persone detenute, i dialoghi in carcere con gli studenti, fino all’incontro con i volontari di Prison Fellowship che nel 2014 lo invitano a partecipare al Progetto Sicomoro. Insieme ad altri detenuti partecipa a incontri con le vittime di reati analoghi a quelli da loro commessi, con la presenza di un facilitatore che agevola il confronto su temi cruciali come l’assunzione di responsabilità, il ravvedimento, la riparazione, il perdono, la riconciliazione. Dialoghi sinceri, senza maschere, a tratti dolorosi, che riaprono antiche ferite e arrivano fino alle profondità dell’anima lasciando un segno indelebile nel suo cuore. «Nel racconto evangelico il sicomoro è l’albero sul quale si arrampica Zaccheo per vedere passare Gesù, ed è lì che a sorpresa quell’uomo da tutti conosciuto come un malfattore viene raggiunto da uno sguardo che cambia la sua vita, uno sguardo che ricomprende il male compiuto dentro la logica del perdono. Nei volti delle persone incontrate durante il Progetto Sicomoro - vittime di reato o loro familiari - ho visto il volto di Cristo che si chinava sui miei errori e mi abbracciava. Nella mia carriera criminale le vittime erano solo obiettivi da colpire, gente senza nome e senza volto, pedine da abbattere, ma durante quegli incontri e ascoltando il loro dolore ho fatto i conti con il meccanismo distruttivo innescato dalle mie imprese delittuose. E così le pedine anonime hanno assunto una fisionomia precisa che ora stava lì, davanti ai miei occhi, mostrava il suo volto, chiedeva di essere riconosciuta e offriva la possibilità di un canale di comunicazione, di iniziare un rapporto in cui il male che avevo commesso non era più un’obiezione. Non mi vergogno di dire che in quei momenti ho pianto, ho pianto tanto, e ho visto emergere la mia umanità ferita e desiderosa di redenzione. E’ stata un’esperienza di purificazione e di liberazione».
Il Progetto Sicomoro ha debuttato nel carcere di Opera nel 2010 coinvolgendo sette detenuti del reparto di alta sicurezza e da allora ha trovato attuazione in molti penitenziari. Si declina attraverso dialoghi di due-tre ore settimanali per una durata media di otto settimane e si conclude con un momento di comunicazione pubblica del percorso fatto e dei risultati conseguiti. «La sua attuazione è preceduta dalla ricerca sul territorio delle vittime o di loro familiari che si rendono disponibili a incontrare i detenuti, ai quali, in collaborazione con la direzione del carcere, vengono presentati la natura e lo scopo del progetto - spiega Marcella Reni, responsabile di Prison Fellowship Italia, l’associazione che ne cura la realizzazione -. In alcuni casi il progetto viene riconosciuto come un’attività trattamentale dallo stesso ministero della Giustizia per il suo alto valore educativo. Durante gli incontri accadono cose straordinarie, si assiste a un processo di trasformazione dell’umano sia nei detenuti sia nelle vittime di reato. E anche i nostri volontari che partecipano come facilitatori vedono all’opera la grazia di Dio, in una misura e con un’efficacia inimmaginabili. Da questa esperienza usciamo tutti cambiati e resi più consapevoli del fatto che nessun uomo è riducibile al reato commesso e che il cambiamento è sempre possibile».
Anche nella vita di Platania è accaduta in questi anni una trasformazione dell’umano, di cui darà testimonianza il 13 dicembre a Sacrofano, alle porte di Roma, in occasione di un evento promosso alla vigilia del Giubileo dei detenuti. Il suo percorso è proseguito fino a ottenere la semilibertà e ad approdare a nuovi lidi: in questi mesi sta preparando la tesi di laurea magistrale che avrà come tema «Il tempo e l’altro» perché si è profondamente convinto che «il tempo di ognuno di noi acquista significato solo in un legame con l’alterità, le nostre vite valgono perché sono dentro una trama di rapporti con altre vite». Questa parola - «alterità» - è diventata carne, ha assunto i volti di tanti giovani arrivati in Sardegna dall’Africa e dal Medio Oriente e ospitati in un centro di accoglienza, ai quali lui insegna la lingua italiana nell’ambito di un progetto promosso dalla cooperativa Il Piccolo Principe. Da quando il magistrato di sorveglianza gli ha concesso la semilibertà, ogni giorno Platania esce dal carcere e offre tempo e competenze nei servizi gestiti dalla cooperativa. «Quando mi hanno offerto questa opportunità quasi non ci credevo, ma ho detto subito "eccomi", è diventata un’altra tappa del mio cammino. Un giorno due ragazzi algerini che hanno appena cominciato a masticare l’italiano mi hanno fatto vedere sullo schermo del cellulare tre semplici parole: "ti vogliamo bene". Alla sera sono rientrato in carcere con il morale alle stelle, qualcuno aveva riconosciuto il volto buono di Enrico Platania. Tutto il bene che faccio è una piccola restituzione di ciò che ho ricevuto in questi anni, ma non potrà bastare per arrivare a sanare il male compiuto.
So bene che non potrò mai "pareggiare", ma voglio giocare fino in fondo la partita della vita».
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