Il piano del Mef e l'«emergenza disuguaglianze»

Tra il 2000 e il 2024, l’1% più ricco del mondo ha catturato il 41% della nuova ricchezza generata, mentre la metà più povera ha ricevuto appena l’1%. Nel programma del Ministero dell'Economia e delle Finanze, il tentativo di cambiare paradigma
November 7, 2025
Il piano del Mef e l'«emergenza disuguaglianze»
Icp
La questione delle disuguaglianze è tornata al centro del dibattito pubblico. Non perché sia nuova, ma perché oggi assume un carattere sistemico: incide sulla vita materiale delle persone e sulla qualità delle nostre democrazie. Il rapporto del Comitato di esperti del G20, guidato da J. Stiglitz, parla apertamente di “emergenza disuguaglianza”. Tra il 2000 e il 2024, l’1 per cento più ricco del mondo ha catturato il 41 per cento della nuova ricchezza generata, mentre la metà più povera ha ricevuto appena l’1 per cento. Nello stesso periodo, circa l’83 per cento dei Paesi (che rappresentano il 90 per cento della popolazione mondiale) mostra livelli alti di disuguaglianza. Parallelamente, il Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit registra un peggioramento costante: nel 2024 il punteggio medio globale è sceso a 5,17 su 10. Non è dunque solo una questione economica: è una questione democratica. Come può reggere una democrazia quando cresce la distanza tra chi decide e chi subisce, tra chi beneficia e chi resta escluso?
La promessa implicita delle democrazie occidentali era chiara: lavorare e partecipare alla vita collettiva garantisce dignità. Oggi quel patto è in crisi. Non per destino, ma perché il modello economico dominante si è progressivamente sganciato dai suoi presupposti sociali. La competizione globale senza limiti e senza regole ha concentrato potere e valore in pochi centri. Nel frattempo, crescono i posti di lavoro, ma cresce anche la povertà. Anche in Italia, salari reali stagnanti e precarietà diffusa mostrano che il lavoro non garantisce più mobilità sociale. Anche gli aggiustamenti in corso d’opera, come la manovra al centro delle consultazioni di questi giorni, rischia di concentrare gli effetti non là dove servirebbero: lo ha detto chiaramente l’Istat ieri a proposito della revisione Irpef.
R. Rajan, in The Third Pillar, ricorda che lo Stato e il Mercato hanno schiacciato, appunto, il terzo pilastro della società: la comunità. Partha Dasgupta, in On Natural Capital, richiama invece l’urgenza di considerare capitale naturale ed ecosistemi come stock fondamentali, non come inesauribili “cave di valore”. La disuguaglianza riguarda quindi non solo come dividiamo la ricchezza, ma come la produciamo. Se il valore nasce da modelli estrattivi — che consumano territori, relazioni sociali e capitale naturale — la redistribuzione è illusoria: arriva troppo tardi e non compensa lo squilibrio creato a monte.
Per questo il recente Piano per l’economia sociale promosso dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef), attualmente in consultazione fino al 12 novembre, va letto come un tentativo di cambiare paradigma: favorire imprese che generano valore condiviso, non separando produzione e redistribuzione e radicando il lavoro dentro comunità e territori. Non si tratta di carità, ma di architettura istituzionale: ripensare i modi in cui si crea valore, affinché non distrugga la base sociale ed ecologica che lo rende possibile.
Su questo terreno entrano oggi due attori decisivi: l’Intelligenza artificiale e la finanza. Possono ampliare le disuguaglianze o ridurle. L’IA può essere infrastruttura di centralizzazione radicale o strumento di autonomia diffusa. Può accentrare conoscenza e potere nelle piattaforme oppure diventare tecnologia civica, capace di rafforzare capacità, trasparenza e accesso. Allo stesso modo, la finanza può restare algoritmo di estrazione rapida del valore oppure orientarsi verso forme di investimento paziente, mutualistico e territoriale, capaci di accompagnare transizioni e ricostruire legami.
Non c’è neutralità: la direzione va definita politicamente. La democrazia si difende non solo nelle urne, ma nelle condizioni che rendono credibile il futuro. La disuguaglianza è un problema di senso prima che di numeri: occorre restituire senso al lavoro, alla comunità, alla cura del mondo condiviso. Qui si gioca la sfida. Il tempo delle pezze è finito. Non basta mitigare gli effetti: occorre cambiare le regole del gioco. Un mondo in cui pochi salgono e molti scivolano non è solo ingiusto: è instabile e, soprattutto, non dura.

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