Il mega-yacht, i bimbi affamati: in diplomazia anche la forma è sostanza
L'incontro dei delegati di Israele, Usa e Qatar al largo della Costa Smeralda (tra ritiri e smentite) stride con le scene al limite della dignità umana che arrivano dalla Striscia di Gaza

Le forme, il protocollo, l’immagine e la dignità di un’istituzione possono essere conservate anche nei momenti più critici. Anzi, sono forse una risposta doverosa alla distruzione e alla rovina che incombono. Ma devono essere il riflesso esterno di un atteggiamento coerente con i valori che si vogliono manifestare. Si tramanda che il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, privo di mezzi come il Paese all’uscita dal conflitto, si fece prestare un cappotto per presentarsi in modo adeguato ai rappresentanti delle grandi potenze riuniti nella Conferenza di pace a Parigi del 1946. Una sobria eleganza non appariva fuori luogo, anche se la gran parte dei suoi concittadini di abiti buoni non ne aveva più. Mentre 113 palestinesi sono morti di fame fino a ieri, nella sostanziale inerzia del mondo, provoca invece un ulteriore moto di indignazione che i negoziatori possano darsi appuntamento su un mega yacht in Costa Smeralda, a bordo del quale dovrebbero svolgersi i colloqui per avanzare verso una tregua nella martoriata Striscia di Gaza.
Non che nelle lunghe maratone negoziali condotte finora in Qatar si digiunasse in solidarietà con i bambini rimasti senza cibo né acqua. Nel chiuso dei palazzi, e lontano dai nostri occhi, potevamo però pensare che tutto l’impegno dei partecipanti fosse concentrato sull’obiettivo indifferibile di riattivare gli aiuti umanitari per i gazawi. Invece, ecco l’arrivo in Sardegna dell’inviato della Casa Bianca, Steve Witkoff, per incontrare il ministro israeliano per gli Affari strategici Ron Dermer e il primo ministro del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani forse salendo su una delle navi di lusso ancorate al largo di famose località turistiche.
C’è ancora la possibilità che giunga una smentita, e le trattative si svolgano in un altro luogo, più consono alla tragedia. Speriamo di non doverci trovare davanti a immagini scattate con droni o teleobiettivi, raffiguranti tavole lussuosamente imbandite sul mare. D’altra parte, siamo obbligati a chiederci se non hanno qualche rimorso di coscienza davanti ai quasi 60mila morti ufficiali dell’invasione israeliana anche molti altri leader che risulta quasi superfluo elencare. «Tutta Gaza sarà ebraica, il governo sta spingendo affinché Gaza venga cancellata. Grazie a Dio, stiamo estirpando questo male», avrebbe dichiarato proprio ieri il ministro ultranazionalista Amichai Eliyahu.
Il presidente americano Donald Trump ambisce al premio Nobel per la Pace di cui è stato insignito il (da lui odiato) predecessore Barack Obama. Il suo impegno per mettere fine all’eccidio è stato al momento irrilevante, sebbene in qualità di principale alleato di Tel Aviv abbia la possibilità di imporre un cessate il fuoco. I Paesi arabi e islamici, a parole difensori del popolo palestinese, provano a mediare senza mettere in gioco la loro ricchezza e il loro ruolo strategico (che potrebbero usare per premere sugli Stati Uniti). Soltanto negli ultimi giorni, l’Europa ha alzato la voce di fronte all’intollerabile vista di civili non solo uccisi dalle bombe ma anche privati del sostentamento e costretti a implorare un sacco di farina sotto il fuoco degli occupanti, costato la vita già a più di mille persone. Di concreto, tuttavia, da Bruxelles e dalle capitali dei 27 membri, Roma compresa, nulla si è mosso.
Perché l’Unione non ha avvertito Israele che avrebbe avviato un ponte aereo di aiuti se non fossero ripresi gli approvvigionamenti? Certo, un’operazione del genere sarebbe complessa e rischiosa, ma il gesto simbolico e la pressione diplomatica avrebbero potuto smuovere qualcosa. Non certo ultima vi è la responsabilità di Hamas, che ha dato origine a tutto ciò con l’orrendo pogrom del 7 ottobre e che ancora oggi ritarda l’accordo con Benjamin Netanyahu contrattando sulla liberazione di suoi affiliati condannati all’ergastolo prima di cercare d’ottenere soccorsi per la propria gente, richiesta che dovrebbe costituire una priorità assoluta. E pure noi che osserviamo impotenti (e magari ci scandalizziamo degli emissari sugli yacht) non siamo esenti da colpe per la nostra inerzia. C’è un potere dei senza potere, come ha testimoniato Vaclav Havel: essere fedeli alla verità e non rassegnarsi al conformismo per convenienza. Anche un piccolo gesto contribuisce al bene. Dove sono le mobilitazioni per i bambini stroncati ora dall’inedia e per quasi due anni dai proiettili? Dove le raccolte di fondi per inviare cibo e farmaci? Dove le sollecitazioni ai nostri rappresentanti perché agiscano in modo efficace per la tregua? Gli esempi coraggiosi di padre Romanelli e del cardinale Pizzaballa, vicini ai poveri e alle vittime a rischio della propria incolumità, dovrebbero insegnare qualcosa. A noi e a un mondo che non può continuare a ricevere notizie da Gaza e rimanere inerte. Non potremo dire che ignoravamo come si morisse per violenze e per fame. Si fermi la guerra. Anche su una barca milionaria, se serve. Non si può attendere oltre.
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