Il Giappone è pronto a sfidare il suo tabù più grande: l'atomica
di Luca Miele
La premier Sanae Takaichi ha detto di non potersi pronunciare sul mantenimento dei tre principi fondanti in tema nucleare, mettendo in discussione il bando delle armi atomiche

Nel bel mezzo della ennesima crisi (di nervi) con la Cina, con le relazioni tra i due Paesi sempre più tormentate dal dossier Taiwan, è arrivata un’altra “bomba” sganciata dalla premier giapponese Sanae Takaichi. La “Lady di ferro” nipponica ha dichiarato di non potersi pronunciare sul mantenimento dei «tre principi fondanti sul nucleare»: quelli di «non detenere», «non fabbricare» e «non consentire l’introduzione di armi atomiche nel Paese». «Al momento l’esecutivo mantiene tali principi come orientamento politico», ha spiegato Takaichi aggiungendo, però, di non essere «ancora nella fase in cui si possa confermare il loro status futuro». La premier, insomma, è pronta a sfidare – anche sull’onda sull’accelerazione impressa dal presidente americano Donald Trump, che ha ordinato al Pentagono di riprendere i test atomici – uno dei tabù sul quale si è edificato il Giappone contemporaneo: il bando delle armi nucleari. Qualcosa, sino a poco tempo, semplicemente impensabile per Tokyo. Il Paese, d’altronde, sempre più revisionista (e assertivo), sembra voler congedare uno dei cardini della sua storia recente: il pacifismo, condensato nell’articolo 9 della sua Costituzione, che vieta la guerra come strumento politico, rendendo il Giappone (almeno formalmente) «privo di un esercito offensivo tradizionale». Uno scardinamento che ha avuto nell’ex primo ministro Shinzo Abe uno dei convinti assertori con la teoria (e la pratica) del “pacifismo proattivo”, lo stesso Abe che, non a caso, è stato il mentore dell’attuale premer giapponese. Il processo di avvitamento che vede il nostro tempo lanciato nella folle corsa al riarmo rischia così di fare un’altra vittima illustre: la memoria. Persino la memoria del Paese che, unico al mondo, ha sperimentato, letteralmente nella propria carne, l’orrore e la devastazione dell’olocausto nucleare. Una memoria da sacrificare, secondo la leadership nipponica (e non solo), sull’altare di un principio elevato ormai a dogma indiscusso: contenere la Cina.
L’azzardo di Takaichi, se realizzato, confermerebbe lo scollamento tra élite dominante e opinione pubblica. Perché in Giappone il ricordo della tragedia atomica rimane profondamente radicato. Lo ha ricordato, in occasione del’'80esimo anniversario dei bombardamenti su Hiroshima e Nagasaki, il sindaco di Hiroshima Kazumi Matsui, mettendo in guardia «contro la crescente accettazione del potenziamento militare e dell'uso di armi nucleari» sotto il manto della «sicurezza nazionale». Quanto è lontano il Giappone dall’arma atomica? Non molto in realtà. Secondo il quotidiano nipponico (in lingua inglese) The Japan Times, il Paese dispone attualmente di una riserva di 16mila chilogrammi di plutonio, sufficienti per fabbricare più di 3mila vettori nucleari. Non ci vorrebbe peraltro molto tempo. Alcuni stimano meno di un anno.
Il possesso di armi atomiche garantirebbe più sicurezza al Paese, secondo l’assioma dell’equilibrio del terrore? Ne dubitano in molti. Sempre il Japan Times sottolinea come «il passaggio del Giappone al nucleare fungerà inevitabilmente da innesco per la proliferazione. L’acquisizione di armi nucleari renderebbe il Giappone un obiettivo militare molto più urgente per Cina, Russia e Corea del Nord». Sulla stessa linea il Lowy Institute: «La Cina considererebbe la nuclearizzazione giapponese una grave provocazione, trasformando le già tese relazioni tra i due Paesi in una vera e propria ostilità. La Corea del Nord risponderebbe quasi certamente con un aumento delle provocazioni militari, creando un pericoloso ciclo di escalation che potrebbe spingere, a sua volta, la Corea del Sud verso un proprio programma nucleare. In breve, il Giappone sarebbe meno sicuro, le tensioni regionali aumenterebbero vertiginosamente e altri Paesi potrebbero scegliere di seguire l’esempio di Tokyo, a ulteriore scapito della pace e della sicurezza internazionale». L’imperativo ossessivo della sicurezza ad ogni costo mostrerebbe, ancora una volta, il suo vero volto: il volto di un incubo.
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