Il carcere, il dolore e l'assoluzione: la verità di Giulia Ligresti

Due arresti e la lotta tenace per ripristinare la giustizia. E ora per la figlia del finanziere Salvatore, un presente da designer e di impegno nelle missioni all'estero
July 1, 2025
Il carcere, il dolore e l'assoluzione: la verità di Giulia Ligresti
Ufficio stampa | Giulia Ligresti in una recente missione umanitaria in India
Il volto sorridente di Giulia Ligresti spunta tra rotoli di tessuti e macchine per cucire, tra manichini e pile di scampoli. Nella Sartoria sociale dove lavorano rifugiati politici, che è parte dei tanti progetti dell’associazione Realmonte, di cui è volontaria e responsabile dei progetti internazionali, racconta di sé, della sua odissea giudiziaria, dei due periodi trascorsi in carcere con l’accusa di reati finanziari, dell’assoluzione definitiva “perché il fatto non sussiste”, della sua carriera di designer e, più di tutto, dei progetti umanitari che da anni la portano in Palestina e in Afghanistan, in India e in Siria, prima come presidente della Fondazione Fondiaria Sai e poi come volontaria dell’associazione milanese Francesco Realmonte. Nel 2007, tra le altre cose, contribuì a portare in Italia un gruppo di giovani giornaliste afghane, due delle quali svolsero un tirocinio ad Avvenire.
In questa intervista, Giulia Ligresti non parla della sua vita di “prima”, quando da brillante laureata in Bocconi saltava da un Consiglio di amministrazione all’altro, sulle orme del padre Salvatore, l’immobiliarista e finanziere che fu tra i protagonisti della vita pubblica italiana a partire dagli anni Settanta. Madre di tre figli amatissimi, lei preferisce concentrare la sua energia sul futuro. Che è creatività, impegno sociale, empatia. E battaglia per rimettere in fila ciò su quanto le è accaduto al cospetto del sistema giudiziario italiano; e Niente è come sembra. La mia storia: la forza della verità è il titolo del libro che ha dato alle stampe per Piemme (pagg. 178, euro 18,90). Arrestata nel luglio 2013 per ordine della procura di Torino, Giulia Ligresti dopo 40 drammatici giorni di detenzione a Vercelli, patteggiò e ottenne i domiciliari. “Inferno: atto II” è il capitolo del libro in cui Giulia ricorda il secondo arresto, nell’ottobre 2018, manette ai polsi, per l’esecuzione della condanna. A San Vittore restò tre settimane: quello che ne segue è la storia di una tenace battaglia per ristabilire la verità.
Un ritratto di Giulia Ligresti - Ufficio stampa
Un ritratto di Giulia Ligresti - Ufficio stampa
Dottoressa Ligresti, nel libro racconta la sua storia attraverso la “forza della verità”. Perché ha aspettato tanti anni? E perché ora?
Scrivere un libro è un’impresa importante, va affrontata con serietà. È servito del tempo. A un certo punto ho sentito che il momento di ristabilire la verità era arrivato. Nel libro racconto ciò che ho vissuto a partire dai fatti; ognuno può farsi il proprio giudizio.

Mi hanno posto in una situazione
di debolezza fisica e psicologica
per ottenere la rinuncia alla difesa
Cos’è se non tortura?
Ero in missione a Betlemme,
Maya,una ragazzina di 12 anni di Gaza,
mi ha disegnato un cuore
con dentro i nostri nomi
e le parole “I love you”
Il suo giudizio sui fatti è molto chiaro...
Certo, perché sono accadute cose sconcertanti.
Ad esempio?
Il patteggiamento ottenuto dai magistrati nel 2013 come scambio per la mia libertà. La tortura in Italia è vietata, ma ciò che è accaduto a me cos’è se non tortura? Mi hanno posto in una situazione di debolezza fisica e psicologica per ottenere la rinuncia alla difesa. È vietato dalla legge, ma a me è successo. Non è sconcertante?
Nel libro emerge un forte senso di sfiducia nella magistratura. È così?
Se mi devo basare sulla mia esperienza, la sfiducia è totale; ma penso e spero che non sia così per tutti. Credo che nella magistratura ci sia una parte problematica, che a volte compromette la parte sana. Qualcuno dice che con me sono stati commessi errori. Io mi faccio alcune domande sul fatto che siano stati effettivamente errori.
Lei ha chiesto il risarcimento per l’ingiusta detenzione, e il procedimento, tra annullamenti e ricorsi, è ancora in itinere. Come finirà?
Siamo alla settima puntata di una commedia dell’assurdo che comprende anche tre ricorsi alla Cassazione. Ho imparato a mie spese che il sistema non ammette i suoi errori. In sostanza, lo Stato dice che con il patteggiamento ho perso il diritto al risarcimento. Ho dichiarato fin dall’inizio che verrà utilizzato per i miei progetti umanitari.
Ha mai pensato di mollare?
No. Queste battaglia è come una gara di resistenza. La fatica è tanta, il traguardo non prevedibile. Ma io sono una maratoneta.
L’esperienza del carcere, il processo e la battaglia per il risarcimento l’hanno cambiata?
No. Io sono sempre stata una persona battagliera e in questo senso non sono cambiata. Certo, la prima volta che mi hanno portata in carcere ero impreparata, sotto choc. La seconda volta ero più arrabbiata e avevo deciso di combattere; pensi che ho trasmesso questa forza alle detenute che mi stavano vicine. Questa esperienza mi ha resa fortissima, ho promesso a me stessa che nessuno avrebbe mai più avuto il potere di spezzarmi. E no, non mollo.
Nel libro lei scrive che per resistere in carcere aveva due modelli: uno gigantesco, Nelson Mandela, e l’altro più pop, il protagonista del film Unbroken, un soldato americano che sopravvive in un campo di prigionia giapponese. Un po’ strano, no?
Mandela ha trascorso 27 anni in carcere e poi è entrato nella storia. Unbroken è diventato il mio mantra in carcere, una formula che ripetevo, una promessa a me stessa: non mi spezzerete, non mi romperete.
Dottoressa Ligresti, parliamo del suo impegno umanitario, coltivato da ben prima dell’arresto. Nel libro racconta di aver svolto missioni in Paesi come Afghanistan, Etiopia, Burkina Faso, India, Sri Lanka, Gaza… c’è un luogo, una situazione, una persona che le sono rimasti particolarmente nel cuore?
Impossibile citare una persona o una situazione, sono tantissime. L’emozione più recente me l’ha regalata Maya, una ragazzina di 12 anni di Gaza, che ho incontrato lo scorso aprile a Betlemme, dove ero in missione per conto dell’Associazione Realmonte di Milano per un progetto psicopedagogico che nella sua metodologia contempla il disegno. Maya disegnava, dunque. Quando ha finito, mi ha mostrato un cuore con dentro i nostri nomi intrecciati e le parole “I love you”. Poi ha frugato nelle tasche e mi ha regalato un souvenir di legno. Ecco, mi ha commosso: una preadolescente che ha sperimentato tanta sofferenza, che ha subìto traumi e non ha più nulla, è ancora capace di far parlare il suo cuore e donare affetto.
Immagino che con il suo curriculum da numero 1 lei avrà un posto ai vertici dell’associazione...
No – ride, ndr – in associazione ciascuno è un numero 1.
Nel libro cita diversi incontri con uomini e donne di Chiesa che hanno lasciato un segno nella sua vita: padre Sibi in India, suor Chicca a San Vittore, padre Juan a Gaza... In che modo ha contribuito alla sua vita spirituale?
Per me sono affetti veri, famiglia. Sono credente e praticante e mi basta guardare queste persone all’opera per trarne un insegnamento. La caratteristica che accomuna le persone che ho incontrato e raccontato nel libro è che sono molto operative, pragmatiche: ci sono dei bisogni e si agisce. In questo mi riconosco.
Nel libro si parla diffusamente di persone molto amate: il padre Salvatore, i tre figli, i fratelli ma anche collaboratori, amiche e amici, persone di servizio, operatori incontrati in carcere… Sembra che la sua vita sia piena d’amore.
Sì, è così. L’amore è una parte importantissima della mia vita. E io so che c’è del buono in ogni persona. Durante la mia ingiusta carcerazione preventiva a Vercelli, Valeria mi ha salvato la vita chiamandomi “Giulietta mia”. Ho tanti ricordi belli, sì. Ma mi tengo stretti anche quelli brutti, non li dimentico.
Lei è nata e cresciuta a Milano. Come vede, oggi, la sua città?
Vedo che manca il verde, che si soffoca nel cemento. Negli ultimi due anni mi sto impegnando per avviare un iter per la salvaguardia di un’oasi di 20 ettari di suolo verde, La Maura. Dalle istituzioni locali nessuna risposta. Si vede impegnata nella politica cittadina? Perché no? Sì, mi vedrei come sindaco di Milano. Vorrei fare di più per la mia città.

© RIPRODUZIONE RISERVATA