I morti di Gaza, i morti di Israele: a Milano apre la tenda del lutto

«È giunto il momento di comprendere l'insensatezza del massacro in corso e condannare il male. Bisogna ricordare il nome di tutte le vittime». Dal 21 di settembre Gariwo lo farà al Giardino dei Giusti
September 17, 2025
I morti di Gaza, i morti di Israele: a Milano apre la tenda del lutto
Abbraccio tra due donne a Gaza
Per il 21 settembre, Gariwo ha proposto una grande iniziativa per ricordare le migliaia di vittime di Gaza e del 7 ottobre che si svolgerà al Giardino dei Giusti di Milano. Proprio lì istalleremo una grande tenda del lutto, che riprende l’analoga iniziativa della comunità di Neve Shalom Wahat al-Salam. Nel villaggio binazionale vicino a Gerusalemme, infatti, i cittadini avevano organizzato attorno ad una tenda una giornata di lutto comune tra israeliani e palestinesi. L’obiettivo della giornata, organizzata insieme ad altre realtà e associazioni, è quello di portare al giardino tutte le persone che amano la pace e il dialogo; che reagiscono alle atrocità di massa e rifiutano la violenza. Vorremo che partecipassero in silenzio le autorità cittadine, religiose, imprenditoriali, assieme a tutto il popolo della nostra città che sempre, nella storia, è stato capace di lanciare segnali importanti nei momenti di crisi.
Perché ricordare i morti, dare loro un nome e immaginare la sofferenza di chi non li potrà più rivedere? Prima di tutto perché dobbiamo fermare la continua carneficina dei cittadini di Gaza, lo spostamento quotidiano di una popolazione trattata alla stregua di un gregge, la distruzione delle case, i bombardamenti sugli ospedali, le stragi dei bambini, come la prigionia degli ostaggi e lo stesso trauma dei soldati e riservisti israeliani che, come i militari americani in Vietnam, non si ripresero dall’orrore di cui furono protagonisti. Non importa il nome e la definizione che si dà alla distruzione di Gaza (genocidio, atrocità di massa, crimini contro l’umanità), come scrive Nadav Tamir, lo storico consigliere di Simon Peres. Quel che conta è la consapevolezza della condizione inumana che vivono centinaia di migliaia di persone. Ogni vittima ha un volto, una biografia unica, un sogno infranto. La conta dei numeri non provoca scandalo, mentre l’empatia e l’immaginazione per ogni volto ci permettono, invece, di metterci al loro posto.
Chi entrerà nella tenda del lutto penserà a una storia e questa prossimità deve diventare un impegno personale per chiedere il silenzio delle armi a Gaza, fino al giorno in cui questa follia umana troverà fine. Come ha scritto Adriano Sofri sul Foglio, non siamo nel dopo Gaza, ma siamo contemporanei a un eccidio senza fine. Gaza viene distrutta ogni giorno. Tutto questo orrore deve finire subito ed è uno scandalo che l’Europa abbia mostrato fino ad ora tutta la sua impotenza
Non ci sono ragioni etiche, di fronte a una guerra che ha colpevolizzato un popolo intero per il 7 ottobre. Il meccanismo più terribile dei massacri è proprio l’utilizzo del concetto di colpa collettiva che, ogni volta, ha fatto dire ai portavoce dell’esercito israeliano che le vittime dei bombardamenti negli ospedali, nelle scuole, nelle chiese fossero sempre sostenitori di Hamas. Quindi, ogni eccidio continua regolarmente ad essere giustificato come se fosse necessario. Come scrisse Viktor Frankl, l’inventore della logoterapia nonché autore di uno dei più profondi libri sulla prigionia ad Auschwitz, in nome di questo concetto perverso si possono punire, perseguitare, umiliare le persone, indipendentemente dalla loro responsabilità. Probabilmente, Gaza si ricorderà nella storia dei genocidi e delle atrocità di massa, come l’applicazione estrema della colpa collettiva su una intera popolazione.
Perché ricordare i nomi di tutte le vittime, immaginando che un giorno ci possa essere un monumento che, come quello recentemente inaugurato Srebrenica, non ci faccia più dimenticare la lacerazione che ha colpito Gaza? È giunto, finalmente, il momento di comprendere l’insensatezza di tutte queste morti che si ripetono in Medio Oriente da una generazione all’altra, quando 8 milioni di israeliani e 7 milioni di palestinesi non hanno altro luogo dove vivere. E quando non esiste altra soluzione se non una convivenza pacifica tra i due popoli. Tutte queste morti non nascono, come si crede, da una cattiveria (sarebbe troppo semplice), ma da sogni irrealistici di coloro che immaginano che la terra “dal mare al Giordano” debba appartenere ad un popolo unico.
Come direbbe lo scrittore Vassilji Grossman, che analizzò la dinamica dei regimi totalitari, in nome del bene assoluto di una parte sola, si giustifica l’eliminazione di un’altra parte dell’umanità, considerata nociva. Lo ha pensato Hamas con il lancio dei missili sulle città israeliane e poi con i pogrom del 7 ottobre che aveva come obbiettivo la liberazione di tutta la Palestina, come se si trattasse di ripetere la guerra di Algeria, cacciando con tutti i mezzi gli israeliani come i colonialisti francesi.
È stata la logica di Netanyahu e della destra israeliana, che ha praticato la distruzione di Gaza con l’idea che fosse un passo per la realizzazione della Grande Israele messianica, promessa a un solo popolo. Se l’obbiettivo fosse stato la neutralizzazione di Hamas e il ritorno degli ostaggi vivi, come scrive Thomas Friedman sul New York Times, Israele avrebbe stipulato accordi con i paesi arabi e l’autorità palestinese in Cisgiordania per una alternativa al potere di Hamas a Gaza. Invece, lo scopo della destra al potere a Gerusalemme è quello di usare la lotta ad Hamas per riportare i vecchi insediamenti israeliani a Gaza e dare un nuovo slancio alla colonizzazione di territori, creando all’ interno un sistema di apartheid con leggi diverse per ebrei e palestinesi.
Se l’ipotesi di una terra per un popolo solo continuasse a essere praticata dalle dirigenze palestinesi e israeliane, avremmo un futuro di nuove guerre, atrocità di massa e un ciclo di vendette senza fine.
Il dopo Gaza sarebbe solo una nuova Gaza. Ecco, allora, perché la tenda del lutto al Giardino dei Giusti non vuole essere soltanto una condanna del male inarrestabile di questi giorni, ma un punto di partenza per rilanciare l’idea della pace, del dialogo e della non violenza tra israeliani e palestinesi. Non ci possiamo sostituire ai protagonisti tragici del conflitto, certamente, ma possiamo riportare all’ordine del giorno una narrazione positiva che proponga ipotesi concrete di condivisione della stessa terra. Sarà una confederazione tra due Stati, sarà uno Stato unico per due popoli, sarà la costruzione di uno Stato palestinese in coesistenza pacifica con lo Stato israeliano, come sostiene il filosofo palestinese Nusseibeh, non sappiamo. Ciò che conta è la conclusione dell’occupazione, come la fine di ogni disegno politico che voglia eliminare la presenza dell’altro.
Ma per realizzare tutto questo ci vuole un grande movimento dal basso che unisca israeliani e palestinesi coraggiosi che superino le appartenenze reciproche e creino pratiche comuni di dialogo. Il nostro compito, dunque, è quello di dare voce e sostenere queste iniziative. Possiamo diventare un ponte importante per nuove relazioni tra le due parti.
Si tratta, però, di fare un salto culturale anche in Italia nella lettura del conflitto. Deve finire il tempo di schieramenti contrapposti per una parte o l’altra, ma dobbiamo diventare messaggeri della condivisione. Lo potremmo fare se saremo capaci nella nostra immaginazione di mettersi sempre dal punto di vista delle due parti. La tenda del lutto può, così, diventare la tenda dell’utopia possibile.

© RIPRODUZIONE RISERVATA