I figli non devono essere l'unica ragione di vita

Avere troppe aspettative o attribuire solo diritti rischia di caricare la prole di debiti e crediti, togliendo libertà all'amore. Il baricentro della famiglia deve essere la coppia
October 17, 2025
I figli non devono essere l'unica ragione di vita
I percorsi di psicoterapia sono in buona parte narrazione e rielaborazione della propria storia: anche quando si affrontano difficoltà o problemi che si collocano nel presente, la ricostruzione autobiografica è sempre di grande importanza per comprenderli pienamente, e gli affondi nel passato sono perciò molto frequenti. Emerge così il racconto delle relazioni familiari, relazioni fondanti attraverso le quali impariamo a vivere e ad amare, e che costruiscono le basi della nostra personalità. Nel racconto della propria storia le figure principali sono sempre i genitori, narrati secondo la visione soggettiva che di loro e del rapporto con loro ci siamo costruiti nel tempo. Colpisce il fatto che nella maggior parte dei casi il racconto si sviluppa soprattutto intorno a quello che è mancato: i limiti del padre e della madre, le loro disattenzioni, le ingiustizie subite, le incrinature del rapporto che i genitori avevano tra loro, costituiscono altrettante ferite che continuano a risuonare anche nel presente, come un credito sempre aperto. Lasciare andare il passato è una cosa importante per proseguire il cammino: una vita adulta piena e felice richiederebbe diventare capaci di uscire dalla logica asfittica del debito e del credito, per addentrarsi finalmente in quella nuova del dono e della riconoscenza.
Come fare? Si tratta di un tema complesso, perché dobbiamo leggerlo in due direzioni: dobbiamo domandarci, da genitori, se abbiamo messo o mettiamo debiti impropri sulle spalle dei nostri figli; e dobbiamo domandarci, da figli, se continuiamo anche da adulti a mettere debiti sulle spalle dei nostri genitori. Per rispondere a questa seconda domanda basta osservare se stessi: il mancato perdono nei confronti dei genitori traspare dal nostro grado di impazienza nei loro confronti, e dall’irritazione con cui mal tolleriamo in loro dei difetti che in persone meno vicine ci farebbero persino sorridere con una certa benevolenza. Sanare i conti sospesi con i genitori è un passo importante per inserire i nostri figli nell’asse delle generazioni; è un modo importante per fare i conti con la realtà: la realtà dei loro limiti e la realtà dei nostri, che come loro faremo del nostro meglio senza poter evitare del tutto gli errori.
La posizione dei genitori non è mai semplice. Accogliere al mondo un figlio e “dargli la vita” (che si tratti di un figlio biologico o adottivo non fa differenza) è un atto grandioso, diverso da ogni altro atto creativo, così come è fuori proporzione il rapporto dare/avere che si stabilisce per molti anni con lui. Il neonato è sprovvisto di tutto, persino delle più elementari competenze per sopravvivere; l’adulto che lo accoglie gli presta occhi, voce, mani, intelligenza, perché possa crescere, apprendere, diventare un uomo. Per molti anni il genitore si mette al servizio del figlio, procurandogli tutto ciò che gli è necessario: amore, cura, assistenza, educazione. Bisogna allora farsi una prima domanda: questo amore dei genitori per i figli può davvero essere dono gratuito, o prende invece inevitabilmente la forma di un debito che chiede prima o poi di venire saldato?  Anche senza volerlo, la generosità con cui ci occupiamo dei figli sottende, più spesso di quanto pensiamo, l’idea implicita che crescendo ci renderanno ciò che abbiamo investito su di loro; ce lo renderanno in soddisfazione per il loro successo, ce lo renderanno nel prendersi cura della nostra vecchiaia, ce lo renderanno portando a compimento i progetti e i sogni che abbiamo fatto su di loro. La leggerezza e la libertà sono difficili nel rapporto con un figlio, perché fatichiamo a pensarlo come un dono che ci è solo affidato: il bellissimo dono che la vita affida con fiducia a persone imperfette, che cercano di volersi bene tra e sono disposte a volergli bene. I figli, soprattutto oggi, sono diventati piuttosto parte di un progetto personale, e li amiamo riempiendoli di attenzioni, di cose, ma anche di aspettative.
A volte diventiamo un po’ come chi ha investito i suoi beni per la costruzione di una casa: bisogna visitare spesso il cantiere, verificare che tutto proceda secondo i piani, dare indicazioni, suggerire modifiche perché l’opera si realizzi secondo il nostro progetto. Anche quando il nostro progetto si esprime nel desiderio della loro riuscita e della loro felicità, non è facile staccarsi dall’idea di una “riuscita” e di una “felicità” pensati a modo nostro: non è facile accettarli per quello che sono con i loro limiti, accettare che incontrino insuccessi, che scelgano una vita diversa da quella che abbiamo sognato e abbiano idee diverse dalle nostre. Soprattutto, non è facile accettare che spostino il loro baricentro affettivo al di là di noi, relegandoci a una progressiva marginalità nella loro vita, “…dopo tutto quello che abbiamo fatto per loro”. Con i figli, il debito corrisponde a volte alla richiesta implicita di aderire alle nostre aspettative per non deluderci; altre volte, in modo più pesante, i figli diventati adulti si vedono presentare il conto di un debito con tanto di interessi da parte di genitori che hanno dato loro “tutto”: diventati vecchi, chiedono ai figli (o a volte pretendono sentendosi nel giusto) un risarcimento per il tempo e le energie “sacrificate” per loro.
Nello stesso tempo, senza rendercene conto, spesso siamo proprio noi a crescere i nostri figli come se fossero puri soggetti di diritti, costantemente in credito con la vita; si crea perciò una situazione paradossale di scontento per tutti: carichiamo di un debito non richiesto colui che nasce, facendogli però nello stesso tempo credere di essere lui il creditore…  Questo accade se e quando non mettiamo il nuovo nato nella giusta posizione relazionale, e facciamo di lui il vero baricentro della vita familiare togliendo alla coppia il suo ruolo di asse portante. I bambini finiscono così per assorbire tutte le energie affettive della mamma e del papà, che mettono in secondo piano il loro essere coppia e spesso subordinano anche le loro scelte di adulti a quelli che sono i desideri del bambino. In questo modo la nascita di un figlio rappresenta la fine della vita personale e di coppia dei suoi genitori, e i bambini si trasformano in piccoli tiranni e pericolose sanguisughe cui tutto è dovuto e nulla può essere negato: un’idea di amore che manca dell’equilibrio necessario al vero benessere di tutti.
Un figlio davvero amato è un figlio che trova in famiglia la giusta posizione, e che non diventa “ragione di vita” per chi lo ha generato: la coppia lo precede, lo accoglie, lo accompagna nella crescita e al momento opportuno lo lascerà andare libero per la sua strada. Il vero amore è fatto di libertà e non di debito reciproco, e comporta la capacità di mettere in equilibrio l’amore dell’altro con un sano amore di sé. Amare un figlio non significa svuotarsi, perché l’amore non deve svuotare; non significa spostare il baricentro familiare sul figlio, perché il baricentro deve continuare a rimanere sulla relazione della coppia, che è all’origine di quel figlio. Questo amore fatto di libertà e non di debito reciproco è quello che, nel tempo opportuno, potrà aprire le porte anche alla riconoscenza, frutto maturo (e talvolta tardivo) ma sempre bellissimo: segno di un essere diventati davvero adulti, e dono prezioso per l’ultimo tratto di vita di chi invecchia. L’invito giubilare alla remissione dei debiti ci aiuta ad aprire anche questa riflessione: in famiglia dobbiamo imparare a uscire dalla logica del debito/credito per entrare un po’ alla volta in quella molto più liberante del dono. Si tratta di un percorso di crescita per tutti, genitori da un lato e figli dall’altro; pur con le nostre fatiche, i nostri egoismi e le nostre imperfezioni, sarà possibile imparare, come genitori, a dare con maggiore gratuità, e imparare come figli la bellezza della gratitudine e della riconoscenza.

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