Esploriamo la terra della profezia imparando da chi non ha nulla
L’esperienza biblica del popolo di Dio documenta un modo di preparare il futuro alternativo alla delega passiva o al cieco attivismo

Nelle domeniche dell’Anno Santo «Avvenire» ospita voci credenti e laiche per offrire riflessioni a partire da domande ispirate dalla Bolla di indizione del Giubileo. Qual è, oggi, la speranza che «non delude»? Che speranze nutrono il nostro sguardo sul futuro? Su che fondamenta edifichiamo progetti di vita, attese, sogni? E la società a che speranza attinge?
«Tutti sperano»: così inizia Papa Francesco la sua Bolla Spes non confundit alla porta del Giubileo. Ma davvero tutti sperano? Il filosofo francese Gabriel Marcel lo diceva della fede: che tutti credono. Non intendeva solo un credo religioso ma anche una disposizione esistenziale: si va a un appuntamento nella fiducia che l’altro ci aspetti; si passa col verde perché si confida che le auto che vengono dall’altra direzione si fermino. Tutti i movimenti che facciamo seguono dunque il filo della fede che si regge, però, sulla reciprocità. Allo stesso modo funziona la speranza? Niente affatto: essa consiste piuttosto di un movimento verso l’ignoto, di braccia tese verso un vuoto. Verso uno spazio ancora senza un perimetro e un tempo che non è mai accaduto. La speranza è una consegna, un anelito verso ciò che ancora non ha alito, la brama di un emergere che inizia appena a formarsi. La speranza si sporge sull’Altrove, è terra di profezia. Davvero «Tutti sperano»? Dipende da cosa si intenda. «Chi di speranza vive disperato muore» predica la saggezza popolare. Intendendo con «speranza» una postura passiva, una sorta di delega verso il destino, la negligenza del fatalista che, convinto di non poter in alcun modo intervenire nella storia, resta seduto a meriggiare. «Il corso delle cose è sinuoso» è un pensiero di Merleau-Ponty cui si ispira un romanzo giovanile di Andrea Camilleri, e dentro le sue pagine assolate si può davvero assaporarne il mistero. Se questa sorta di pigra rassegnazione è la speranza allora sì che molti sperano. E anche se si intende la speranza come sorgente dell’imperativo dettato in un altro proverbio che dice, invece, «Aiutati che Dio ti aiuta», lo stesso si può dire che siano in tanti a sperare. Lo spirito degli «attivi» spinge a sperare sì in Dio ma anche a darsi da fare perché si possano ottenere dei risultati e migliorare la propria e l’altrui vita. Si tratta in ambo i casi, tuttavia, di sperare in ciò che si conosce, in qualcosa che avviene come sempre è avvenuto o che realizza ciò che abbiamo progettato. Ambedue restano in un orizzonte determinato, chiuso, «naturale», dove la speranza vale, però, per i salvati e non per i sommersi, come nell’amara formula di Primo Levi. Che tutti sperino, dunque, è una provocazione da parte di Francesco? Mettiamola alla prova nella Scrittura dove la speranza è attestata come l’esperienza tipica del popolo di Dio e dei personaggi che lo rappresentano. Il primo a sperare è Abramo, il quale, dice Paolo, sperò «contro ogni speranza» (Rm 4,18). Ed ecco la grande differenza della speranza biblica: quest’ultima è la negazione di quella «speranza» popolare di cui abbiamo già detto. È il tempo e il luogo in cui quest’ultima avviene che rompe ogni schema naturale e razionale: Abramo era uno straniero nella terra altrui, giunto ormai alla vecchiaia e senza figli. Fu in quella condizione di assoluta impotenza che Dio lo invitò ad uscire dalla sua tenda per porlo ad abitare sotto un cielo stellato di città e di figli. «E Abramo credette e ciò gli venne accreditato come giustizia» conclude Paolo commentando il testo di Genesi (cf. Gen 15,6 citato in Rm 4,3). Sperare è, pertanto, sia un atto di giustizia da parte di Dio verso i vecchi stranieri destinati all’oblìo, sia l’atto di crederci, da parte loro. Così fu anche per Sara, la novantenne sulle cui labbra fiorì un sorriso inatteso, che alfine si posò sulla steppa del suo grembo trasformandolo in oasi. Perché «c’è forse qualcosa di impossibile a Dio?» (Gen 18,14). Sperare è credere nell’impossibile e vederlo «farsi carne» (cf. Gv 1,14). No, non tutti sperano, non sperano quelli che hanno qualcosa da perdere ma spera chi non ha nulla da difendere, chi si sente soffocare, sperano i senza terra e i migranti - come Abramo o Giacobbe -, i poveri, gli impotenti, i delusi e gli esclusi, gli oppressi, quelli che si trovano tra la vita e la morte. La speranza è nell’obiezione di coscienza delle levatrici quando si rifiutano di far morire i neonati maschi delle donne ebree schiave in Egitto, rischiando esse stesse la vita (cf. Es 1,15ss.). Le donne sono le più grandi attrici della speranza nella Scrittura: ne sono testimoni in maniera speciale mentre si strappano i capelli e celebrano il lutto sui figli uccisi. Esse «gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio» (Es 2,23); nel loro grido è l’eco «del sangue di tuo fratello che grida a me dal suolo» di cui Dio chiese conto a Caino (Gen 4,10).
Querele di speranza sono le donne di Gerusalemme, la loro bocca arsa alla coppa dell’indegnità e della banalità del male nella città devastata a causa di una guerra sciagurata e voluta da governanti irresponsabili e crudeli. È lì che la speranza si rivela nel coraggio del grido: «Grida dal tuo cuore al Signore, gemi, figlia di Sion; fa' scorrere come torrente le tue lacrime, giorno e notte! Non darti pace, non abbia tregua la pupilla del tuo occhio! Àlzati, grida nella notte, quando cominciano i turni di sentinella, effondi come acqua il tuo cuore, davanti al volto del Signore; alza verso di lui le mani per la vita dei tuoi bambini, che muoiono di fame all'angolo di ogni strada» (Lam 2,18-19). La speranza non viene dalle bombe né dall’ipocrisia della falsa diplomazia ma dall’urlo delle madri di tutte le culle violate. È la decisione di Ecuba che dice ad Andromaca spingendola a salire comunque sulle navi achee: «Chi vive ha speranza»! (Euripide, Le Troadi). È notizia recente che a Gaza sono finiti i posti per seppellire i morti nei cimiteri. Per trovarne qualcuno occorre pagare centosettanta euro. I divoratori di carne si fanno pagare non solo con il sangue ma pure coi cadaveri, proprio come Giuda che chiese trenta denari per «vendere» le spoglie di Gesù. Immagino le madri che rinunciano a ritornare a casa finché non sia data sepoltura alle loro creature che giacciono a brandelli sulle strade, come faceva Rispa coi corpi dei suoi figli impiccati in aperta campagna: «Essa non permise agli uccelli del cielo di posarsi su di loro di giorno e alle bestie selvatiche di accostarsi di notte» (2 Sam 21,10). «Nella speranza siamo stati salvati» afferma Paolo nella Lettera ai Romani (8,24). Nella speranza di chi, dunque? Anzitutto di Dio, che mentre allibisce dinanzi alla follia del suo popolo e non capisce perché distrugga gli altri e sé stesso, continua a dibattere con loro: «La vostra terra è un deserto, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri; è un deserto come la devastazione di Sòdoma»; sebbene Dio non comprenda perché vogliano: «Ancora essere colpiti, accumulando ribellioni», e nonostante che «tutta la testa è malata, tutto il cuore langue» (Is 1,7.5), e ancorché non possa neanch’Egli farsi una ragione della corruzione del cuore umano: «Più fallace di ogni altra cosa è il cuore dell'uomo e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?» (Ger 17,9), Dio sempre spera che quel cuore cambi, che si converta, che si lasci guarire: «Su, venite e discutiamo, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana. Se sarete docili e ascolterete, mangerete i frutti della terra» (Is 1,18-19). La speranza è il tempo e l’altrove dell’Amore. Essa risorge fresca come «una bambina piccina» (cf. C. Pèguy) sulla rinuncia alla Bestia della violenza e della vendetta: «Perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). E si consegna come un genitore, in un grido: «Dando un forte grido spirò» (Mc 15,37). Da allora, per i cristiani, la speranza è un compito: quello di sop-portare la speranza di Dio e del ventre della terra; quello di rompere il silenzio sui fautori di morte, di contrastare le loro reti di propaganda, di far sì che il gemito si trasformi in gioia, le lacrime in gocce di rugiada. Sul volto del creato e del Crocifisso.
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