Ecco perché candidare i bambini di Gaza al Nobel per la pace
Premiare i piccoli della Striscia significherebbe riconoscere la loro sofferenza innocente, affermare che ogni bambino ha diritto alla pace, e chiamare la comunità internazionale alla responsabilità
Sì, è vero: il Nobel per la pace viene assegnato a chi costruisce la pace, o almeno ci prova. Così aveva prescritto nel 1895 Alfred Nobel: nel suo testamento spiegava che l’onorificenza sarebbe stata riconosciuta a chi ha «fatto il massimo o il miglior lavoro per la fraternità tra le nazioni, per l'abolizione o la riduzione degli eserciti permanenti e per la formazione e la promozione di congressi di pace». Sì, è vero: il Nobel per la pace, concretizzandosi in un assegno cospicuo, deve essere attribuito a una persona in carne e ossa, o, come è accaduto più volte, a una organizzazione che ne faccia buon uso. Sì, è vero: il Comitato del Nobel ha i suoi percorsi per scegliere a chi assegnare il Premio e le candidature non rientrano nelle procedure dei saggi di Oslo. Che idea balzana, dunque, candidare la categoria generica dei “bambini di Gaza” all’assegnazione del Nobel per la pace. Oltre alle obiezioni già citate, si può aggiungere anche questa: se le vittime incolpevoli delle guerre, in qualunque parte del mondo e in qualsiasi tempo, fossero idonee per un tale riconoscimento, si sarebbero guadagnate il monopolio del Premio fin dalla sua prima assegnazione, nel 1901. Perché di guerre, e di vittime innocenti, ce ne sono sempre state.
Non è senza motivo, dunque, il fatto che la proposta dell’associazione pugliese “L’isola che non c’è”, presentata nei giorni scorsi alla Camera dei deputati, sia stata accolta con un certo scetticismo dai media, accompagnato da un eloquente silenzio, sebbene abbia ottenuto il sostegno di decine di enti, istituzioni, associazioni, parlamentari, docenti, semplici cittadini.
Ci si può infatti domandare: in che modo le centinaia di migliaia di bambini rinchiusi nella prigione Gaza, ridotti alla fame, testimoni di lutti, mutilati, possono essere considerati simboli di pace? E in che modo possono esserlo gli oltre 18mila bambini uccisi dalle forze armate israeliane nell’ambito dell’operazione per sterminare Hamas? Testimoni di una guerra ingiusta e sproporzionata sì, dell’atroce assurdità di ogni conflitto sì. Ma della pace? Una risposta la offre la stessa associazione: «Questa candidatura non è solo un atto simbolico. È un appello morale. Premiare i bambini di Gaza significa riconoscere la loro sofferenza innocente, affermare che ogni bambino, in ogni luogo del mondo, ha diritto alla pace, e chiamare la comunità internazionale alla responsabilità collettiva verso chi non può difendersi».
Ci si può infatti domandare: in che modo le centinaia di migliaia di bambini rinchiusi nella prigione Gaza, ridotti alla fame, testimoni di lutti, mutilati, possono essere considerati simboli di pace? E in che modo possono esserlo gli oltre 18mila bambini uccisi dalle forze armate israeliane nell’ambito dell’operazione per sterminare Hamas? Testimoni di una guerra ingiusta e sproporzionata sì, dell’atroce assurdità di ogni conflitto sì. Ma della pace? Una risposta la offre la stessa associazione: «Questa candidatura non è solo un atto simbolico. È un appello morale. Premiare i bambini di Gaza significa riconoscere la loro sofferenza innocente, affermare che ogni bambino, in ogni luogo del mondo, ha diritto alla pace, e chiamare la comunità internazionale alla responsabilità collettiva verso chi non può difendersi».
Un’altra risposta può arrivare considerando ogni singola storia, ogni singolo nome di quell’insieme indistinto che va sotto l’espressione “bambini di Gaza”. Prendiamo in esame da principio i 18.500 morti, uno per uno. Un bambino, più un altro bambino, più uno, più uno… Un figlio, più un figlio, più un figlio... I loro nomi sono stati messi in fila da quattro giornalisti del Washington Post, che hanno costruito una agghiacciante mappa di chi non c’è più, annientato da una bomba o da un cecchino. Una mappa suddivisa anche per età: per esempio, 900 bambini sono stati uccisi prima di compiere un anno, 1.218 avevano 16 anni. Sannd aveva 70 giorni, è morto con la mamma e i suoi fratelli di 8 e 5 anni. Quest’ultimo, Tariq, «aveva una bicicletta e sognava di diventare pediatra». Hala, 14 anni, «adorava ballare la dabka, una danza folkloristica palestinese». Tala aveva 10 anni ed è morta mentre indossava i suoi pattini rosa. Kenan, 9 anni, stava giocando a calcio. Da quando questa sciagurata guerra è iniziata, all’indomani dell’attacco di Hamas a Israele, ogni ora è morto un bambino di Gaza. Ogni giorno è scomparsa un’intera classe di alunni.
Se li consideriamo così, uno per uno, nelle loro brevi esistenze, possiamo immaginare che Sannd, Tariq, Hala e tutti gli altri possono essere costruttori di pace nella misura in cui il sacrificio di ciascuno di loro non generi nei fratelli sopravvissuti altro odio, altro sentimento di vendetta e di distruzione, bensì il desiderio di costruire un futuro diverso. Ecco, ci sono i vivi, i sopravvissuti. Spetta a loro, “bambini di Gaza”, spezzare la catena che da generazioni tiene paralizzata, da una parte e dall’altra, ogni possibilità di convivenza. Il martirio dei bambini di Gaza, di quelli morti e di quelli vivi, e insieme a loro dei bambini di ogni guerra – sì, certo, anche dei piccoli israeliani barbaramente massacrati da Hamas il 7 ottobre 2023 e successivamente, nella prigionia – con la candidatura al Premio Nobel per la pace potrebbe essere riconosciuto come il punto più basso raggiunto dall’umanità prima che si decidesse di cambiare rotta. Utopia? Speranza? In ogni caso, anche se a Sannd, Tariq, Hala e ai loro fratelli sopravvissuti non sarà mai assegnato alcun Nobel – non ci illudiamo che accada davvero – ha un senso pensare a loro come messaggeri di pace. «I bambini di Gaza – ha scritto in un messaggio padre Ibrahim Faltas, vicario dalla Custodia di Terra Santa - meritano il Nobel per la pace perché sono loro stessi il significato della parola pace, perché hanno subito le conseguenze nel corpo e nella mente delle azioni di adulti incoscienti e irresponsabili, perché hanno sentito e visto l’orrore della violenza, perché hanno sofferto per la morte di chi ha dato loro la vita, perché hanno perso il sorriso dei momenti di gioco, per la mancanza di istruzione e di condivisione di due anni di scuola, perché hanno perduto gli anni belli dell’infanzia». Non è abbastanza?
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