Disabili e detenuti: l'incontro che apre le gabbie fisiche e mentali

L’esperienza (unica) al carcere di Opera: uno spazio di relazione tra i reclusi e gli ospiti del centro psichiatrico Camaleonte della Fondazione Sacra Famiglia che li fa sentire persone libere
August 5, 2025
Disabili e detenuti: l'incontro che apre le gabbie fisiche e mentali
L’esordio è un tripudio di strette di mano, baci, abbracci, sorrisi, in un luogo dove c’è poco da ridere. Si incontrano due volte al mese in un salone del carcere di Opera, alle porte di Milano. Matti e criminali, per dirla in maniera brutale, secondo il linguaggio della strada. Per dirla meglio, persone disabili e persone detenute. Persone. I primi arrivano dal Camaleonte, il centro diurno psichiatrico della Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone, storico luogo di accoglienza nato nel solco della carità cristiana. I secondi portano sulle spalle condanne di ogni genere, ergastolo compreso, e hanno aderito alla proposta dell’associazione In Opera, promotrice di meritorie iniziative che cercano di dare un volto un po’ più umano alla detenzione. Gli incontri si nutrono di dialoghi, musica, giochi di ruolo, simulazioni, esercizi, puntando tutto sul fattore umano e facendosi aiutare da parole chiave che favoriscono empatia e conoscenza reciproca e stimolano a uscire dalle gabbie fisiche e mentali in cui i protagonisti si sono trovati a vivere. Un’esperienza iniziata nel 2018, la prima del genere in Italia, e che quest’anno, con il nome di “Viaggiatori all’Opera”, mette al centro la lettura del “Piccolo principe” di Saint Exupéry: esplorazioni verso nuovi mondi che aiutano a scoprire se stessi e il valore prezioso dell’alterità. 
«Non nego che all’inizio ero un po’ titubante, ma nel tempo ho scoperto quanta umanità è racchiusa dietro la fragilità di queste persone - confessa Giuseppe, un galeotto veterano del progetto -. In carcere i rapporti tendono a fermarsi alla superficie e ognuno può stare insieme agli altri rimanendo comodamente nascosto dietro la propria maschera. Qui invece saltano gli schemi, siamo invitati a metterci in gioco, a entrare in un confronto diretto con l’umanità delle persone». Per Ubaldo la partecipazione al progetto è diventata «un luogo di amicizia, dove anche noi detenuti sperimentiamo l’importanza delle relazioni. La malattia psichica e la reclusione fisica sono due condizioni con cui dobbiamo fare i conti ma che non ci definiscono. Siamo di più, siamo persone. Le potrà sembrare paradossale, ma per me questi incontri hanno il sapore della libertà». Barbara Migliavacca è la responsabile del centro psichiatrico Il Camaleonte della Fondazione Sacra Famiglia, vive ogni giorno immersa nel mondo della disabilità e ha potuto verificare «l’importanza di questa esperienza anche sotto il profilo riabilitativo. È nella relazione che i nostri ospiti scoprono il loro valore. Quando incontrano le persone detenute, non si sentono più “pazienti” beneficiari di cura e assistenza, etichettati da una diagnosi. Osservando il loro comportamento notiamo cambiamenti significativi: cresce l’autostima, diventano protagonisti, intuiscono che anche loro possono prendersi cura dell’altro. Funziona come un balsamo rigeneratore. L’incontro con i ristretti ha proprio il valore di una terapia». Lo conferma in maniera colorita Elena, che frequenta il Camaleonte da dieci anni e dal 2022 partecipa agli incontri di Opera: «Sono proprio contenta, ho scoperto che i carcerati sono persone come noi, non sono vestiti con le tute a strisce bianche e nere come ho visto nei film alla televisione. Frequentandoli, li ho trovati simpatici e socievoli, quando sto con loro mi sento come se avessi una famiglia, io che non l’ho mai avuta».

È più pesante la prigionia fisica di chi trascorre tanti anni (a volte tutti quelli che gli rimangono da vivere) in una cella o quella mentale di chi fa i conti con il disagio psichico? Una cosa è certa: l’incontro che avviene tra i protagonisti di queste prigionie - come può testimoniare chi scrive - non è la sovrapposizione di due condizioni negative, piuttosto diventa l’occasione per costruire rapporti generativi. Non solo perché aiuta a superare lo stigma sociale (“criminali” e “matti”) ma perché diventa un sollievo sulle ferite inferte dalla vita, produce un’energia - a volte inattesa, ma reale - che aiuta a ripartire, a intuire che nelle persone c’è un valore infinito. Qualcosa che a prima vista sembra improbabile produce un cambiamento. Proprio da questa evidenza è nato un video che già nel titolo esprime le potenzialità dell’esperienza: si intitola “La cura improbabile” (https://youtu.be/N_fUaC7XpoM?feature=shared )
Giovanna Musco, presidente dell’associazione In Opera e pioniera di un progetto che non ha precedenti nel nostro Paese, in questi anni ha ricevuto tanti riscontri sui benefici che derivano ai detenuti dalla possibilità di conoscere ed entrare in amicizia «con persone che, pur se in maniera differente, sperimentano anche loro una gabbia, una limitazione della libertà. Si sentono utili, preziosi, protagonisti. Agli incontri partecipano anche persone che da anni non mettevano il naso fuori dalla cella, per qualcuno è come riaffacciarsi alla vita, riscoprire l’importanza delle relazioni. Alcuni dopo la conclusione dell’esperienza detentiva hanno voluto andare alla Sacra Famiglia per rivedere le persone conosciute qui: un’amicizia che non conosce confini». C’è anche un aspetto che riguarda il percorso rieducativo: «Con alcuni ristretti stiamo riflettendo sul valore della giustizia riparativa, che implica un lavoro di ricucitura con il tessuto sociale che ha subito un danno da chi ha commesso reati. Costruire relazioni con chi vive una condizione di particolare fragilità, come avviene nei nostri incontri, va proprio in questa direzione. Chi aderisce al progetto ha la possibilità di riflettere sulle ferite che ha provocato e di poter in qualche modo risanare almeno in parte il danno provocato alla società». 
Dopo anni di tentativi e di rodaggio la sinergia tra questi due mondi si è consolidata, ma gli esordi non sono stati affatto semplici, come ricorda Florenc che è stato tra gli iniziatori e che oggi, anche se trasferito in un altro istituto penitenziario, continua a seguire l’avventura di questa insolita compagnia. «Nei primi incontri abbiamo dovuto misurarci con pregiudizi e preoccupazioni anche legittime: temevamo di non essere capaci di gestire i loro sbalzi di umore, le limitazioni fisiche, tutto ciò che può derivare da una condizione di disabilità psichica. Anche tra loro c’era chi non si sentiva a suo agio nel varcare i cancelli di una prigione, nell’avere a che fare con gente che ha commesso reati, a volte anche molto gravi. Per superare le riserve reciproche è stato decisivo l’incontro, la disponibilità a mettersi in gioco, a riconoscere che ci unisce la medesima umanità, il desiderio di conoscere l’altro riconoscendo ciascuno le proprie fragilità. Così, dopo i primi incontri, il tempo che ci veniva messo a disposizione dalla direzione era sempre troppo breve: loro non volevano mai lasciare il carcere e noi non vedevamo l’ora di incontrarli di nuovo. È proprio vero: bisogna imparare a parlarsi, a guardarsi da vicino. Credo che questo valga anche per voi “normali’”». A volte la vita può cambiare, se cambia lo sguardo.
(16 - continua)

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