Da Polibio a Montesquieu: la democrazia e l’equilibrio della forza
La divisione dei poteri è un sistema che ha attraversato i secoli, "approdando" anche negli Stati Uniti. Ma ora è sotto attacco

Nel mio ultimo intervento ho auspicato un risveglio della democrazia; oggi voglio spiegare che il termine «democrazia» è usato e abusato da ogni sorta di schieramenti politici, spesso di inclinazioni opposte, perché è ambiguo, attraversato da un interno dissidio. Nel suo senso più fondamentale, un sistema è democratico se governa negli interessi del popolo, e il popolo è in grado di esautorarlo quando tali interessi non siano soddisfatti. Si pone quindi il problema di come sia costituito tale governo. L’Atene antica fece esperimenti di democrazia diretta, in cui le decisioni venivano prese in assemblea e le cariche assegnate a turno, talvolta per sorteggio. Gli esperimenti ebbero pessimi risultati, come la disastrosa spedizione in Sicilia e la condanna a morte di Socrate; Platone e Aristotele consideravano quindi la democrazia il peggiore fra i sistemi di governo, favorendo invece monarchia e aristocrazia. Contemporanei tentativi di procedere nello stesso senso, per esempio da parte degli italiani Cinquestelle, hanno mostrato gli stessi inconvenienti, e come tali li ho giudicati fallimentari da subito.
Nel 168 a. C. Polibio, militare d’alto grado nella Lega Achea, fu inviato a Roma come ostaggio e lì scrisse le sue Storie, ponendosi il problema di che cosa giustificasse la grande stabilità dell’Urbe, che nei secoli aveva sempre solo conquistato nuovi territori senza mai perderne alcuno. Il motivo, concluse, era che il suo sistema politico risultava da una combinazione delle tre classiche alternative, unendo la diarchia dei consoli, l’aristocrazia del Senato e la democrazia dei tribuni della plebe: la stabilità seguiva da un equilibrio di forze. Cicerone sottoscrisse questa tesi nel De re publica; più tardi vi si trovarono d’accordo Machiavelli e Guicciardini, pur se dissentivano sull’archetipo di riferimento – per il primo era ancora l’antica Roma, per il secondo Venezia. Nel Settecento Montesquieu riciclò questo equilibrio proponendo la divisione di poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario in corrispondenza rispettivamente delle classiche democrazia, monarchia e aristocrazia.
I padri fondatori della repubblica americana erano ben consapevoli di questa tradizione: Thomas Jefferson aveva diverse edizioni di Polibio nella sua biblioteca personale e ne faceva spesso dono ad amici. Il sistema da essi costruito, dunque, se pure può dirsi democrazia nel senso fondamentale della parola, è però misto nel senso della distribuzione delle cariche, e molto attento a mantenere controlli reciproci fra i poteri. Il presidente comanda l’esecutivo, che però deve applicare le leggi sancite dal Congresso; il potere giudiziario è indipendente da entrambi, ma non del tutto indipendente perché i giudici federali, inclusi quelli della Corte suprema, sono nominati dall’esecutivo e confermati dal Senato. Il quale Senato, fino al diciassettesimo emendamento del 1913, non era eletto dal voto popolare ma nominato dalle legislature degli Stati.
Questo delicato sistema è in buona parte responsabile per la stabilità che gli Stati Uniti hanno manifestato nei secoli, mantenendosi liberi e indipendenti, e sopravvivendo sostanzialmente immutati a una guerra civile, per duecentocinquant’anni. Oggi il sistema è sotto attacco. Se giudici federali decretano illegale l’intervento militare ordinato dal presidente in una città o in uno Stato e il presidente procede ugualmente con i suoi piani, siamo di fronte a una crisi istituzionale, che rinnega gli equilibri istituiti dai padri fondatori e conservati, fra alti e bassi, per tutto questo lungo periodo. Non sta a me dire come la crisi si risolverà; ma è chiaro che, se non si risolve con la conferma degli equilibri tradizionali, e se Polibio, Cicerone, Machiavelli, Guicciardini e Montesquieu avevano ragione, ne va della stessa sopravvivenza di questo Paese. Le tirannie, se tale fosse l’esito della crisi, non durano a lungo.
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