Cure palliative, più parole che fatti

di Marco Maltoni
Nel confronto su una legge sul fine vita è imprescindibile conoscere la situazione molto problematica della medicina palliativa in Italia
October 10, 2025
Cure palliative, più parole che fatti
Cosa significa oggi curare le persone in situazioni di sofferenza estrema? Serve una nuova legge sul fine vita? Che princìpi deve rispettare? E qual è il confine tra tutela della vita e della libertà? Con la serie di articoli "Scegliere sulla vita" ascoltiamo voci e sensibilità differenti, in dialogo tra loro. Interviene Marco Maltoni, medico palliativista.
l famoso medico palliativista americano Eduardo Bruera, nel descrivere i momenti di difficoltà della costruzione di un modello di cure palliative in un determinato Paese, profeticamente afferma che successiva alla fase di “pallifobia” (in cui non si può parlare di cure palliative perché è tabù parlare di morte e di sofferenza), si impone una fase di “pallilalia”. Nella “pallilalia”, tutti parlano di cure palliative e affermano di sostenerle, creando così una “narrazione” di potenziamento delle cure palliative, ma esse rimangono invece ostacolate nelle realtà dei fatti.
Vorrei riportare alcuni sintetici esempi che sembrano attestare come oggi in Italia siamo in una fase di questo tipo. A parole tutti auspicano il rafforzamento delle cure palliative come modello di cura utile in sé, e forse anche come possibile offerta che possa ridurre il numero delle richieste di suicidio assistito, ma nella pratica le cure palliative sono invischiate in percorsi complicatissimi.
In Università finora non sono stati poste in essere le due azioni che potrebbero favorire le cure palliative e la medicina palliativa. La medicina palliativa non ha ottenuto un suo proprio Settore scientifico disciplinare, né pare che questa assegnazione sia imminente. Senza un Settore scientifico disciplinare i palliativisti sono perennemente costretti a errare da una materia all’altra, per potere avere spazi di insegnamento e di ricerca, dipendendo molto dalle condizioni locali di accettazione e collaborazione. In passato i Settori scientifici disciplinari erano forse troppi ed è stato attuato un percorso di riduzione degli stessi, ma l’Università non sembra, finora, avere trovato una sensibilità tale da riconoscere peculiarità e innovatività della medicina palliativa, con la sua ricaduta non solo accademica ma anche assistenziale e sociale.
Un secondo punto critico nello sviluppo delle cure palliative universitarie è un po’ tecnico, ma spero di descriverlo anche per chi non sia dentro a questi temi. I possessori di tante “specializzazioni universitarie” (ben dieci tipologie) possono fare concorsi di cure palliative nel Servizio sanitario, mentre i neonati specialisti di cure palliative che solo ora iniziano a uscire dalle Università possono fare concorsi di cure palliative, ma solo questi, e non hanno nessun altro sbocco lavorativo (o per andare a contaminare in modo palliativo altre discipline, come per esempio la geriatria, la medicina di comunità o la medicina interna, o anche solo per avere una alternativa nel caso in cui le assunzioni e i concorsi ancora rari in cure palliative non siano possibili). In gergo tecnico, le cure palliative hanno dieci specializzazioni “equipollenti in entrata”, ma nessuna “equipollenza in uscita”. Questa condizione di inferiorità e non appetibilità è corresponsabile di una lentezza nello sviluppo della scuola di specialità di medicina palliativa, così faticosamente perseguita, ma che ora è a rischio. Ci vorrebbe uno sguardo visionario della Università per uno sviluppo reale, che finora non è avvenuto.
Nel Servizio sanitario nazionale e regionale le cose non vanno meglio. Da una parte, i finanziamenti che dallo Stato, dalle Regioni, dalle Aziende sanitarie possono arrivare alle cure palliative raramente sono finalizzati “esclusivamente” alle cure palliative stesse. Molto più spesso sono finalizzati a una serie di attività e servizi “A, B, C e alle cure palliative”, lasciando ai vari livelli decisionali di scegliere la priorità di utilizzo in base a una serie di motivazioni. Le cure palliative, in questi processi, non sono una disciplina “forte”, e l’interesse per le persone inguaribili corre il rischio di rimanere più dichiarato che concretizzato. Dall’altra parte, il potenziamento delle reti di cure palliative è spesso sostenuto da risorse scarse, e i concorsi per medici specialisti di cure palliative rimangono pochi sul territorio nazionale, tanto che molti modelli ricorrono a una formazione di base in cure palliative di colleghi che le applicano solo per una frazione del loro tempo lavorativo. Questo approccio di base è di certo meritorio e necessario, ma non sufficiente ad affrontare le problematiche più complesse, e a fare ricerca e formazione.
In tutto ciò anche i palliativisti non sempre sono chiari nella loro alterità al percorso del suicidio assistito. Nelle Aziende sanitarie, ormai, non sono infrequenti riunioni su “fine vita, cure palliative, sedazione, interruzioni di supporto vitale e suicidio assistito”. L’eredità del pensiero di Cicely Saunders, l’infermiera fondatrice delle cure palliative, per la quale la difesa dei pazienti vulnerabili e fragili passava da percorsi di cure palliative che non si intersecassero con quelli del suicidio assistito, sta correndo il rischio di passare dall’essere “il” modello condiviso delle cure palliative, a “un” modello di cure palliative tra i tanti, dove altri prevedono anche il coinvolgimento del suicidio assistito.
Per questo, in tanti medici specialisti stiamo cercando di promuovere il modello delle cure palliative “originali”, e di fare chiarezza sulla differenza sostanziale dei diversi percorsi.
Medico palliativista

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