Clausura e reclusione: la vita in cella e il senso della speranza

L’abate generale dei Cistercensi, padre Lepori, e l’incontro con i detenuti. «Da loro ho imparato ad accogliere gli aspetti negativi della vita, frutto dei nostri errori, o dei limiti degli altri»
September 1, 2025
Clausura e reclusione: la vita in cella e il senso della speranza
Padre Mauro Giuseppe Lepori, ticinese, dal 2010 alla guida di uno degli Ordini religiosi più antichi nella storia della Chiesa, che ebbe origine nell’abbazia di Citeaux – in latino Cistercium – in Borgogna, fondata da Roberto di Molesme nel 1098
L’abate generale dei Cistercensi in dialogo con i detenuti. Un incontro che non ti aspetti, ospitato nel salone di un carcere, al quale ne sono seguiti altri che hanno generato rapporti fecondi e scoperte inattese. Cosa hanno in comune questi due mondi? La cella che – per scelta o per necessità – è la loro dimora. Ma c’è molto di più, come racconta padre Mauro Giuseppe Lepori, ticinese, dal 2010 alla guida di uno degli Ordini religiosi più antichi nella storia della Chiesa, che ebbe origine nell’abbazia di Citeaux – in latino Cistercium – in Borgogna, fondata da Roberto di Molesme nel 1098 e che oggi conta 130 monasteri nel mondo.

Quando ha cominciato a incontrare le persone detenute in carcere?
Un amico che cura la formazione accademica per alcuni detenuti in due penitenziari dell’Abruzzo aveva dato un mio testo di esercizi spirituali a un suo studente. Con lui è nata una corrispondenza nella quale mi impressionava come la fede che aveva riscoperto in carcere lo aiutasse a vivere con un’accettazione della sua condizione che mi ha molto provocato, perché spesso non trovo in me o in tanti monaci e monache questo modo di affrontare la vita in cui Cristo è più determinante che i nostri sentimenti. Quando c’è stata la possibilità di visitarlo nel carcere di Sulmona, l’incontro con lui si è incredibilmente dilatato in un dialogo con 150 detenuti. In quell’occasione sono nate amicizie e corrispondenze epistolari, oltre che il desiderio dei carcerati e mio di incontrarci nuovamente per approfondire temi come l’amore incondizionato di Dio e il perdono, temi in cui la fede in Cristo illumina la condizione umana in ogni suo frangente. Sono seguiti incontri in altre carceri, tutti molto provocanti per la mia vita e vocazione.

Cosa ha imparato padre Lepori da queste frequentazioni?
Soprattutto ad avere un rapporto più accogliente riguardo agli aspetti negativi della vita, che spesso sono il frutto dei nostri errori, o che subiamo per i limiti o la malvagità degli altri. In questo senso sono molto edificato dalla testimonianza di accettazione e di fedeltà dei famigliari dei carcerati con cui sono pure venuto in contatto. La fede di chi vive in situazioni estreme come il carcere mette in evidenza che Cristo è veramente il Redentore dell’uomo senza il quale nessuna vita, dentro o fuori dal carcere, troverebbe senso e pace.

Il perdono è uno dei temi centrali dei vostri incontri.
Questa esperienza mi ha reso più cosciente del fatto che il perdono, prima di essere un atto nostro, è incarnato nella presenza di Gesù in ogni circostanza della vita. Lui non ci abbandona, anzi, accorre proprio là dove siamo più colpevoli e ribelli alla legge di Dio e al Vangelo. Il perdono, cioè, è Cristo presente che ci guarda come ha guardato Pietro nel cortile del sommo sacerdote dopo che aveva rinnegato Gesù in modo vile e meschino. Ci guarda con una compassione che riapre sempre in noi la possibilità di un’amicizia con Lui, anzi, l’approfondisce, la rende più intensa e profonda, più grata perché la nostra indegnità ce la fa riconoscere come assolutamente gratuita. Quando si fa questa esperienza con Cristo, è inevitabile che si inizi a guardare gli altri, anche chi è colpevole nei nostri confronti, con uno sguardo aperto alla riconciliazione.

Molti detenuti sono convinti che la gravità dei reati commessi rende impossibile essere perdonati.
Potrebbe sembrare ovvio che chi è colpevole di gravi reati non si senta degno di perdono neppure da parte di Dio. Di fronte però alla loro profonda sofferenza di non sentirsi perdonati ho dovuto riconoscere che forse il mio modo di concepire e annunciare la misericordia di Dio pecca di una certa superficialità. Cristo non vuole irrompere nella coscienza delle persone colpevoli come un ricco che sfonda la porta della casa del povero per beneficarlo, ma si fa povero mendicante che bussa alla porta dei cuori per entrare con la dolcezza di un amico che chiede di sedersi a tavola con noi e ci perdona guardandoci negli occhi. Questi detenuti intuiscono che per accogliere veramente il perdono la loro libertà deve fare un cammino che, ne sono certo, sfocerà in un abbraccio senza fine con il Padre.

Qual è il personaggio del Vangelo che più di altri “narra” il perdono?
Il “buon ladrone”, il malfattore pentito crocifisso accanto a Gesù, a cui viene accordato senza indugio il Paradiso. È la figura che può illuminare non solo coloro che hanno commesso dei crimini, ma tutti, perché in lui i criteri di santità cristiana sono ridotti all’essenziale: ci rivela che la santità, prima che in ciò che si fa, consiste nel lasciarsi salvare con fede e umiltà da Cristo che muore per noi in croce. La santità è quindi sempre possibile a tutti. Il buon ladrone ci fa capire che in Cristo tutto può essere recuperato, anche l’irreparabile, ma solo aprendosi all’orizzonte più grande della nostra vita che Lui apre davanti a noi: l’orizzonte della vita eterna con Lui. Né la colpa né la morte sono barriere insuperabili.

Cosa può trasmettere l’esperienza cistercense a una persona che vive in prigione?
Molti anni fa nacque una corrispondenza con un ex “brigatista rosso” condannato all’ergastolo in Svizzera dopo aver saputo che aveva detto a un giornalista che la cella carceraria è stata ideata sul modello penitenziale della cella monastica. Gli mandai un testo di uno dei primi autori cistercensi del 12° secolo, Guglielmo di Saint-Thierry, che scriveva che la cella del monaco che cerca Dio è cielo, ma quella del monaco che non cerca Dio diventa carcere. Gli scrissi che si poteva quindi capovolgere questo pensiero: che la cella carceraria di un detenuto che cerca Dio può diventare una cella monastica. È vero che la vita in monastero comporta una clausura, una separazione dal mondo, una riduzione dei rapporti e delle opportunità di cui godono normalmente le persone, e anche un aspetto penitenziale, paragonabili a quelli di un carcere, ma per il monaco tutto ciò è conseguenza di una scelta libera tesa all’incontro con Dio che il monaco è chiamato a coltivare anche per il bene dell’umanità. Il monaco dovrebbe testimoniare ai carcerati, come a tutte le persone costrette in condizioni che mortificano la libertà di muoversi e di fare quello che si vorrebbe (pensiamo agli ammalati e alle persone anziane), che la vera libertà dell’uomo è quella del cuore che sceglie l’eterno e l’infinito. L’uomo è veramente libero solo nel rapporto con Dio.

Quale contributo viene dal mondo carcerario in questo Giubileo dedicato al tema della speranza?
La speranza cristiana non è in qualcosa ma in Qualcuno, in Cristo Redentore, fattosi uomo, morto e risorto per noi. C’è una frase di Gesù che da quando ho iniziato a frequentare le carceri e a coltivare amicizie con i detenuti si impone come una delle più sconvolgenti del Vangelo: «Ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Quando, nella stessa parabola, Gesù dice: «Ero affamato, ero assetato, ero straniero, ero nudo, ero malato», in fondo si mette al posto di chi subisce il male. Ma quando dice: «Ero in carcere» esprime un livello di abbassamento in cui Dio scende nella condizione umana colpevole. Gesù si identifica con i criminali, i ladri, gli assassini, insomma tutti i detenuti che, salvo eccezioni, sono in carcere per propria colpa. Il Buon Pastore va a cercare la pecora perduta fino al punto di identificarsi con essa, e così non la riporta solo all’ovile: la porta al Padre assimilandola a Sé, perché il Padre non veda più in lei la pecora ribelle e perduta, ma il Figlio che la stringe a sé con amore. Ma questo non avviene solo per i carcerati: è la natura della redenzione di ognuno di noi. Visitando Cristo fatto carcerato vediamo così il volto più vero della nostra salvezza, e quindi il motivo più luminoso della nostra speranza.
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