Bayrou, la concorrenza fiscale e i nuovi limiti della disparità

Sarà la solita rivalità. Però se il capo del governo francese per fare un esempio di paradiso fiscale non cita il Principato di Monaco o Andorra ma l’Italia, forse qualche domanda dovremmo farcela
September 4, 2025
Bayrou, la concorrenza fiscale e i nuovi limiti della disparità
Reuters | Il primo ministro francese François Bayrou
Mentre nell’intervista televisiva ampia e un po’ disperata di domenica François Bayrou tentava di dire che «l’Italia sta attualmente perseguendo una politica di dumping fiscale», una dei quattro giornalisti che lo stavano intervistando continuava a interromperlo. Il primo ministro francese stava concludendo un ragionamento in cui spiegava che non è possibile alzare le tasse sui grandi patrimoni perché «esiste una sorta di nomadismo fiscale» di contribuenti che si trasferiscono dove le tasse sono più generose.
L’accusa all’Italia gli è uscita spezzata dall’intervento della giornalista e per comprenderla occorre una dose aggiuntiva di attenzione: sembrava insomma destinata a scivolare rapidamente tra i passaggi meno rilevanti dell’incontro tra un leader politico in difficoltà e la stampa. Invece qualcuno l’ha notata e ne è venuto fuori un mezzo bisticcio, con replica semi-ufficiale, via X, di Giorgia Meloni e pure un tweet di Matteo Renzi, che invita «l’amico François» a «riconoscere gli alleati dai nemici».
Sarà stata la solita rivalità tra Roma e Parigi, però se quando il capo del governo della Francia deve fare un esempio di paradiso fiscale il primo Paese che gli viene in mente non è il Principato di Monaco o Andorra ma l’Italia, forse qualche domanda seria dovremmo farcela. E la risposta a cui arriveremmo sarebbe che Bayrou ha detto una cosa vera: per chi produce grandi redditi all’estero l’Italia oggi è uno dei Paesi più convenienti in cui mettere la propria residenza. Lo è da gennaio del 2017, quando è entrato in vigore il regime fiscale dei “nuovi residenti”, introdotto dal governo Renzi: prevede che chi trasferisce la propria residenza fiscale in Italia senza che ci abbia vissuto nei nove anni precedenti possa pagare sui redditi che ottiene all’estero una imposta sostitutiva forfettaria (inizialmente 100mila euro, aumentati a 200mila per chi arriva da quest’anno per effetto di una modifica voluta del governo Meloni). Effetti di una norma del genere: un cittadino francese molto ricco con 20 milioni di euro di redditi annui ottenuti in giro per il mondo in Francia pagherebbe imposte per circa 10 milioni di euro all’anno, ma se si trasferisse in Italia gli basterebbe versare all’Agenzia delle Entrate 200mila euro per essere a posto con il fisco. Un’ottima chance, ben conosciuta dagli studi fiscali che aiutano i grandi ricchi a essere ancora un po’ più ricchi: secondo gli ultimi dati, che risalgono al 2023, hanno approfittato del regime “nuovi residenti” 1.495 persone, che hanno contribuito con 117,6 milioni ai 568 miliardi di gettito fiscale italiano. È uno 0,02%. Vale la pena per così poco di fare uno sgarbo ai nostri “amici” europei?
Certo, non siamo affatto gli unici. Ha ragione Meloni a ricordare che i grandi “paradisi fiscali” europei sono altri. Per anni attraverso il cosiddetto sandwich olandese-irlandese Paesi Bassi e Irlanda hanno aiutato le grandi multinazionali a trasferire decine di miliardi di euro all’anno di profitti dall’Europa a lidi caraibici, sottraendo gettito fiscale agli Stati in cui quegli utili sono stati generati (e non è un caso che il regime fiscale favorevole dell’Irlanda sia uno dei principali motivi della furia daziaria di Trump contro l’Ue). Valeva la pena di citare anche il regime attira-pensionati con cui il Portogallo fino all’anno scorso ha “conquistato” residenza e redditi di decine di migliaia di anziani europei, trasferiti in terra lusitana per pagare solo un 10% di tasse sui redditi. Regimi favorevoli del genere sono tuttora in vigore in Grecia, a Cipro e Malta, mentre basta spostarsi appena fuori dall’area Ue per sfruttare la generosità fiscale offerta agli stranieri facoltosi in Svizzera o nel Regno Unito.
È anche così che funziona la globalizzazione: le persone e le aziende possono spostarsi con un alto grado di libertà per “ottimizzare” redditi e profitti netti (a patto di avere abbondanza di risorse) e gli stati competono per rubarsi i contribuenti più ambiti. È una gara al massimo ribasso, lo si capisce subito, una sorta di rubamazzo in cui però a ogni giro le carte in gioco diminuiscono. È ovvio che l’unico modo di fermarla è mettersi d’accordo e chiudere le falle dei nostri sistemi fiscali. Ci si sta provando, con molta fatica. La “global minimum tax” sui redditi delle imprese si è scontrata con l’opposizione dell’America di Trump, l’imposta minima sui redditi dei miliardari (pari ad almeno il 2% del totale dei loro patrimoni) si è arenata nonostante gli sforzi del G20 durante la presidenza brasiliana. Nemmeno dentro l’Unione europea – dove pure negli anni Bruxelles ha dimostrato di avere modo di imporre limiti stringenti alle libertà degli Stati membri – riusciamo ancora a trovare un’armonizzazione fiscale che impedisca simili “furbate” reciproche ed evidenti ingiustizie a danno della stragrande maggioranza dei contribuenti.
Forse è una conseguenza del vivere negli anni delle grandi diseguaglianze, quella in cui il potere di pressione politica di chi ha di più (da Elon Musk ai pensionati da oltre 10mila euro al mese) ha raggiunto un livello spudoratamente sproporzionato, al punto da rendere impossibile la correzione di storture fiscali tanto vantaggiose per così poche persone. Non sappiamo ancora quale sia il livello massimo di disparità che le nostre democrazie sono in grado di reggere. Ogni volta, però, sembra che stiamo testando nuovi limiti.

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