Alzheimer: vite "assenti", presenze reali. Le nostre
Una società con sempre più anziani vede aumentare le solitudini. Quando queste si sommano alla malattia, come nel caso dell'Alzheimer, l'isolamento si estende ai "caregiver". Come uscirne?

La società cambia: il progresso civile, etico, organizzativo, tecnologico sta segnando profondamente le dinamiche delle comunità. Chi è più fragile rischia di essere travolto dal cambiamento; deve, quindi, essere collocato al centro dell’attenzione e delle cure, per evitare che la sofferenza provocata dalla fragilità assuma toni sempre più pervasivi, diventi il colore della vita dei cittadini.
In questa condizione si trovano molte persone, che vivono in solitudine le loro giornate quando nessuno si occupa di accompagnarle, di donare loro un segno di vicinanza e di affetto. Tra queste, uno spazio particolare, per l’oggettiva condizione di dolore è occupato da chi è affetto da demenza e dalle persone che se ne prendono cura. La solitudine è spesso il segno della vita, la compagna amara e cattiva delle loro giornate. Partendo da questa considerazione, chiunque voglia svolgere una funzione di cura umana, oltre che tecnica, deve mettere in atto atteggiamenti personali di vicinanza, facendo in modo, allo stesso tempo, che le comunità nel loro complesso siano disponibili ad accogliere e accompagnare.
In questa condizione si trovano molte persone, che vivono in solitudine le loro giornate quando nessuno si occupa di accompagnarle, di donare loro un segno di vicinanza e di affetto. Tra queste, uno spazio particolare, per l’oggettiva condizione di dolore è occupato da chi è affetto da demenza e dalle persone che se ne prendono cura. La solitudine è spesso il segno della vita, la compagna amara e cattiva delle loro giornate. Partendo da questa considerazione, chiunque voglia svolgere una funzione di cura umana, oltre che tecnica, deve mettere in atto atteggiamenti personali di vicinanza, facendo in modo, allo stesso tempo, che le comunità nel loro complesso siano disponibili ad accogliere e accompagnare.
La malattia di Alzheimer, o altre patologie che rientrano nel grande ambito delle demenze, in questi decenni continua a crescere dal punto di vista quantitativo, perché le persone ammalate sopravvivono più a lungo, ma anche perché l’incidenza aumenta (per motivi ancora non del tutto chiariti). Le dimensioni del fenomeno in Italia sono rilevanti: gli studi indicano una prevalenza di circa un milione e mezzo di cittadini, ai quali si deve aggiungere un numero simile di familiari o persone di supporto. Una realtà, quindi, di vaste dimensioni, presente nelle grandi città e nei piccoli centri, dove il livello di protezione sociale e clinica non è omogeneo. Ma non solo i servizi variano in modo rilevante: anche la struttura familiare è diversa, con situazioni nelle quali il malato e la persona cui si affida vivono in una sorta di bolla, che li separa di fatto del resto delle persone che vivono attorno a loro. La coppia malato-caregiver (per tradurre questa parola inglese Flavio Pagano ha coniato un felice neologismo italiano: i “curacari”) deve spesso affrontare in solitudine le piccole-enormi difficoltà di tutti i giorni, alla continua ricerca – senza interruzioni nella vita dell’ammalato – di indicazioni per gestire la comparsa di comportamenti che suscitano allarme, perché non previsti e di difficile interpretazione. In alcune zone del nostro Paese vi sono servizi adeguati che accompagnano con attenzione e dolcezza la coppia malato-“curacari”; in altre, però, manca qualsiasi possibile appoggio. In questa condizione di abbandono ogni piccolo avvenimento inatteso diventa fonte di angoscia e di preoccupazione per la sua evoluzione.
Gli eventi tendono a susseguirsi, ogni giorno un piccolo grande nuovo segno, che impone a chi assiste una condizione di continua, vigile, spesso esasperante angoscia. Da questa atmosfera di tensione emotiva viene coinvolto anche l’ammalato, che percepisce incertezza e disagio. Vive, infatti, in condizioni di simbiosi con chi lo assiste, e non vi è bisogno di espressioni verbali perché “senta” l’atmosfera di tensione che lo avvolge. Frequentemente la condizione è aggravata dall’assenza di rapporti con familiari e conoscenti, i quali non sono in grado di mantenere un collegamento di dialogo e di aiuto nei tempi lunghi della malattia (più che per egoismo, per la fatica di dover accompagnare senza sosta il dolore altrui). Fortunatamente, però, non sempre la coppia malato-caregiver viene lasciata sola, perché nelle nostre famiglie esiste ancora la generosità, il dono gratuito della parola e dell’aiuto pratico. Inoltre, in molte realtà operano gruppi di volontari organizzati o spontanei, presenti con delicatezza e costanza nella vita della coppia, che altrimenti rischia di vivere in totale solitudine. Qualcuno ha definito “santi” – sia in senso laico che religioso – le persone che dedicano una vita di servizio senza soste all’ammalato: mogli, mariti, figli, cognati, nuore, nipoti...: un nobile elenco di persone con rapporti diversi rispetto all’ammalato, la cui specificità è data dalla donazione. A questo elenco si devono aggiungere altre persone, senza rapporti di parentela ma con forti legami di amore e gratitudine consolidati nel tempo. Alla fine delle storie di sofferenza e di amore arriva la morte: non è mai un momento di liberazione, come talvolta si pensa, perché la vicinanza nella solitudine e l’affetto vissuti per molti anni hanno costruito legami. E la loro rottura provoca ancora più dolore.
© RIPRODUZIONE RISERVATA






