A Hiroshima e Nagasaki il martirio della nostra umanità
In Giappone si tocca con mano cos'è davvero la guerra: spinta alle sue estreme conseguenze, vuole solo annientare il nemico. La testimonianza credente di Takashi Paolo Nagai

Sul roof garden in cima a uno degli alberghi che si affacciano sul Parco della Pace la comitiva di americani si gode il panorama dell’area verdeggiante che ricorda il luogo dove il 6 agosto 1945 esplose l’atomica. Chiacchierano, ridono, si scambiano selfie: turisti come tutti gli altri. Ma è impossibile non chiedersi se tra i loro pensieri ci sia anche l’ombra del giorno nel quale un aereo con le insegne a stelle e strisce sganciò l’ordigno più devastante mai progettato.

Chiunque visita Hiroshima non può tornare a casa senza una profonda inquietudine: possibile che sia davvero successo? Auschwitz e Birkenau – la catena di montaggio della Shoah – sono rimaste immobili, come se l’ultimo aguzzino se ne fosse andato ieri. E l’impatto emotivo sui visitatori è l’effetto di questa persistenza dei luoghi. Ma Hiroshima no: è una metropoli da più di un milione di abitanti, necessariamente modernissima, febbrile e ordinata come tutte le città giapponesi, estensione di Occidente dall’altro capo del mondo. Dentro quel nome che suona sinistro al pari del lager nazista c’è la spiegazione, mai necessaria come adesso, di ciò che può accadere se si allenta la briglia della guerra convinti di poterla governare.
Lo illustra la grande area al centro della città, sull’isola sdraiata nel fiume Motoyasu, con il monumento, la campana, il museo e il simbolo stesso della minaccia atomica, la Cupola scheletrica di Genbaku, il palazzo delle esposizioni nell’ipocentro dell’esplosione. Hiroshima però non è tutta lì, vive affacciata sul futuro, tutt’altro che ferma a ricordare. Ed è proprio qui che coglie lo sgomento: non un luogo fermo alla pagina di storia, come un cippo, ma l’intera città rinata sulle ceneri delle sue case e di 140mila morti è un sacrario alla memoria e un monito al presente.

Ovunque a perdita d’occhio l’immensa mano arroventata della bomba ha spazzato via in pochi secondi quasi ogni forma di vita, schiantando bambini, famiglie, anziani, tutto incenerito per gli effetti smisurati di un singolo atto di guerra concepito per essere definitivo, paradossalmente (e assurdamente) la garanzia della pace. Le piacevoli strade alberate, il traffico, le persone per strada, i negozi, i templi: tutto evoca equilibrio e organizzazione, modernità e tradizione, come ovunque in Giappone.

Ma avviluppata a questi volti di una città nipponica come tante c’è la memoria dell’abisso che si è aperto proprio qui, dove oggi tutto è in movimento e ogni cosa rimanda ad altro, invisibile ma presente, come insegna la spiritualità shintoista che invita a non fermarsi mai a ciò che appare. Presente e passato tornano a sovrapporsi nel Museo della Pace, con le finestre affacciate sul parco e un percorso angosciante tra oggetti, fotografie, frammenti di vita estinta, persino l’ombra nera su un gradino di pietra, tutto ciò che resta di una vittima.

Hiroshima evoca con la sua stessa vita rinata dalla polvere atomica il sipario che oggi sembriamo tentati di riaprire sulla guerra senza fine né limite, spinta al suo estremo confine, che è in fondo anche il suo vero obiettivo: cancellare tutto, sancire in un solo, decisivo momento chi perde e chi vince, decretare l’umiliazione assoluta degli sconfitti sino a farli sparire.
Per ottenere questa vittoria senza discussioni si è stati capaci di sacrificare una città intera in un solo minuto. Sicuri che oggi non sia più possibile? Tre giorni dopo la prima bomba, toccava a Nagasaki pagare lo stesso tributo al demone della guerra.

Tra le vittime anche la più numerosa comunità cristiana del Giappone, i superstiti di secoli di persecuzioni, i discepoli di Cristo che commossero il giovane medico Takashi Paolo Nagai sino a convertirlo facendone il testimone di una cristianità mite e salda, della quale i suoi straordinari libri oggi ci raccontano la fedeltà sino alla bomba. Esplosa proprio sulla cattedrale cattolica, come il segno – intuì Nagai – di un estremo martirio per la pace.
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