Foto Siciliani
C’è un altro simbolo collettivo, accanto a quello della panchina rossa che ricorda la violenza sulle donne, ed è quello della panchina bianca, il cui significato, molto meno diffuso, evoca le vittime innocenti della violenza, i bambini che assistono al maltrattamento (e a volte purtroppo anche all’uccisione) della loro madre.
È proprio a loro che è stato dedicato il convegno organizzato dall’Ordine lombardo degli Assistenti Sociali “Testimoni invisibili. La violenza assistita dai bambini, dove siamo e dove vorremmo essere”, che si è tenuto il 20 novembre a Milano, in occasione della Giornata Internazionale dell’Infanzia, con una formazione realizzata attraverso la voce, i contributi e le testimonianze di operatori sociali e rappresentanti dell’autorità giudiziaria. Il dialogo ha messo in campo i numeri impressionanti dei minori coinvolti: secondo i dati del Cismai, su 77.493 bambini e adolescenti vittime di maltrattamento presi in carico dai servizi sociali in tutta Italia, il 32,4% è vittima di violenza assistita, che rappresenta la seconda forma più diffusa di maltrattamento, dopo la trascuratezza genitoriale.
Eppure, nonostante questa portata, «la violenza assistita resta un fenomeno sommerso, in qualche modo sottovalutato», ha spiegato Manuela Zaltieri, presidente del Croas Lombardia. «Le ferite dei figli, a differenza di quelle che restano sul corpo della madre, sono invisibili. Si tende allora a pensare che sia sufficiente mettere in protezione il bambino, allontanarlo dalla situazione di violenza, per risolvere il problema. In realtà, come sappiamo, le tracce della violenza assistita hanno effetti a lungo termine e devono essere riconosciute e riparate, prima che le conseguenze possano perpetuarsi nel tempo». Le ferite della violenza assistita nei bambini possono manifestarsi, nell’immediato, «in depressione, bassa autostima, ansia, aggressività, scarsa capacità di gestione della rabbia, stati di agitazione e irrequietezza, minori competenze sociali e relazionali, comportamenti autolesionisti, scarso rendimento scolastico a volte associato a problemi di apprendimento », ha spiegato Valentina Strappa, psicoterapeuta dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo, che ha illustrato l’importanza di cogliere precocemente questi disagi e di attivare una presa in carico multidisciplinare e di rete. «Tra le azioni che, nel nostro territorio, ci hanno aiutato a far emergere il fenomeno», ha proseguito l’esperta, «ci sono la formazione degli operatori sanitari e la richiesta, quando una donna accede al pronto soccorso con evidenze di maltrattamento, di visitare anche i suoi figli».
L’invisibilità della violenza assistita porta con sé anche un altro problema, quello della «trasmissione intergenerazionale» come ha sottolineato Simona Regondi, segretaria del Croas Lombardia. «I bambini e i ragazzi che sono stati esposti per lungo tempo alla violenza domestica, introiettandola, rischiano in un caso su quattro - di diventare a loro volta adulti maltrattanti oppure, specularmente per le bambine e le ragazze, di essere vittime, tollerando relazioni opprimenti o violente». Sul piano giuridico, la violenza assistita è stata definita tra le forme di “maltrattamento prinamente mario” nel 2003, e poi con la legge 69 del 2019 è stata anche riconosciuta come “reato ai danni del minore”, interrompendo così, anche sul fronte del diritto, l’idea che la violenza assistita sia solo un “danno collaterale” della violenza subita dalla donna. Se gli strumenti di tutela ci sono, resta sul campo la complessità di ogni singolo caso, per gli operatori, in particolare nella presa in carico della madre e dei suoi bambini. Infatti se, da un lato, la mamma viene considerata la principale fonte di protezione dei suoi figli, con la priorità di un percorso di tutela che li mantenga uniti, a volte, purtroppo, questa condizione non è percorribile.
«Ci troviamo spesso in un dilemma etico, in una situazione polarizzata tra il diritto di autodeterminazione della donna e il diritto del minore di essere tutelato da situazioni dannose», spiega Regondi. «Infatti non sempre la madre, che è a sua volta vittima, si trova nella condizione di prendere le distanze dalla relazione tossica e di recuperare pie- il suo ruolo genitoriale. Ci capita, in alcuni casi, di ascoltare una sorta di difesa del partner maltrattante, in quanto non ha mai agito violenza sui figli, dunque sarebbe “un bravo padre”. A volte i tempi dell’adulto – tempi di presa di coscienza, tempi di elaborazione - sono diversi da quelli dei bambini». E proprio qui emerge, in tutta la sua drammaticità, la complessità del fenomeno della violenza domestica, che è trasversale dal punto di vista socio-culturale, può essere agita tra le alte fasce di reddito come nella marginalità, ma ciò che accomuna tutte le vittime sono la paura, il trauma, la fatica di parlare e fare denuncia.
A enumerare la molteplicità delle situazioni è Elly Marino, giudice del Tribunale per i Minorenni di Milano: «Tra le vittime ci possono essere donne con problematiche di dipendenza economica e/o abitativa; donne senza reti familiari; oppure straniere che provengono da contesti culturali molto differenti dal nostro; donne spaventate che minimizzano o ritrattano; che ricontattano i partner nonostante la secretazione delle procedure; donne che in comunità non riescono a intravedere la possibilità di lavorare su loro stesse». Da qui l’ importanza di una piena conoscenza della situazione, da parte di giudici ed operatori, per evitare di trattare in modo omogeneo casi differenti. Il “fattore tempo” è un ulteriore aspetto critico: c’è una necessità di rapidità d’intervento ma anche di ottenere una completezza d’indagine.
La riforma Cartabia ha introdotto una corsia preferenziale per questi procedimenti proprio con l’intento di una maggiore tempestività: «Noi adulti, in particolare noi operatori giudiziari, siamo chiamati ad adeguare il tempo del procedimento alle aspettative delle persone offese, in particolare i bambini», ha spiegato il giudice Fabio Roia, presidente del Tribunale ordinario di Milano, che quest’anno ha preso in carico complessivamente oltre 300 bambini esposti a forme di maltrattamento, con un aumento del 46% rispetto all’anno scorso. Il giudice ha poi ricordato la difficile situazione degli “orfani speciali”, i figli dei femminicidi, che si trovano all’improvviso senza genitori, e con la non sempre realizzabile prospettiva dell’affi-damento ai parenti, a volte inidonei o privi delle risorse necessarie per crescerli. E ha sottolineato l’importanza di evitare la “vittimizzazione secondaria” dei bambini, facendo in modo che i vari passaggi del procedimento (dal numero delle audizioni al modo in cui vengono condotte, ad esempio) non rappresentino un ulteriore trauma.
Lo sforzo di “vedere” i bambini e i ragazzi vittime di violenza assistita va insieme a quello di una formazione continua per affinare le competenze, mettersi in contatto coi propri vissuti per combattere gli stereotipi, accompagnare le vittime senza essere giudicanti. «Un tema che chiama a una corresponsabilità a livello sociale», ha detto Francesco Belletti, direttore del Cisf, che ha ospitato il convegno. «Genitori, insegnanti, educatori, operatori sociali e sanitari, ma anche istituzioni e singoli cittadini, vicini di casa: per costruire un sistema di protezione per i bambini che non hanno protezione serve un’intera comunità»