mercoledì 20 aprile 2022
Lo studioso australiano Clark analizza il rapporto tra il potere e la temporalità, che è molto meno naturale di quanto si pensi Oggi viviamo una vischiosità tra tempo libero e tempo del lavoro
Riprendersi il tempo nella società della stanchezza
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di Luca Miele Parigi, luglio 1830. Si è appena consumata la prima giornata di scontri di quella che passerà alla storia come la seconda Rivoluzione francese e che si concluderà con la cacciata del re Carlo X. Nella città attraversata dalla furia delle armi e dai fremiti della rivolta è scesa la sera e, con essa, finalmente anche il silenzio. Ma – come ha raccontato Walter Benjamin –, gli insorti si concedono un ultimo, enigmatico, atto rivoluzionario: sparano contro gli orologi dei campanili. In quel gesto solo apparentemente inspiegabile e incongruo, si compie in realtà un’altra ribellione: la rivolta contro la temporalità dei calendari, contro l’uniformità degli orologi, contro la standardizzazione del tempo (e del tempo produttivo). Quella del tempo e della sincronizzazione del mondo – vale a dire l’immersione del mondo in un sistema di misurazione temporale uniforme e universale e la creazione di un unico habitat produttivo prima, comunicativo dopo – è una storia lunga e sorprendente, piena di scarti, di variazioni, colpi di scena, arresti e continui rilanci. Una storia solo apparentemente 'innocente' ma che, invece, è intimamente intrecciata alle dinamiche del potere. Perché, come scrive Christopher Clark nel suo I tempi del potere. Concezioni della storia dalla Guerra dei Trent’anni al Terzo Reich (Laterza, pag. 324, euro 28), il potere genera sempre «un’incurvatura del tempo». Bisogna – avverte lo studioso australiano – sbarazzarsi da un’ingenuità di fondo: l’idea che il tempo sia qualcosa di immediato, dato o naturale, che esso costituisca «una sostanza neutra o universale nel cui vuoto si svolge qualcosa chiamato 'storia'». Al contrario, il tempo è «una costruzione contingente che ha avuto forme, strutture e trame diverse».

Clark analizza quattro diverse modalità di rappresentazione o organizzazione del tempo in altrettanto diverse congiunture storico-politiche della storia tedesca moderna, l’ultima delle quali è quella che caratterizzò, tragicamente, il nazismo. Ebbene in ogni sistema il potere crea, organizza e modella il tempo, curvandolo, appunto, alle proprie esigenze ideologiche. In ognuna delle fasi storiche esami- nate da Clark, l’intreccio tra passato, presente e futuro muta, l’accento si sposta ora su uno ora sull’altro dei tempora, l’uniformità temporale si spezza a favore ora dello slancio verso il futuro, ora a favore del ripiegamento nel passato. Non solo: presente, passato, e futuro sono entità 'mobili', così come mobile e ondivago è anche il rapporto che si instaura tra ciascuno di essi. Il 'decisionista' Bismarck fu un assertore, ad esempio, di una concezione kairologica del tempo e quindi dinamica della storia: lo statista è colui che sa sfruttare «il turbolento processo della storia», processo che scaturisce dall’urto delle diverse forze e dagli opposti interessi in campo ma lo fa – ecco l’intreccio tra temporalità diverse – rimanendo fedele «a un’idea dello Stato monarchico come entità immutabile e trascendente». Ogni epoca storica analizzata testimonia, nella lettura di Clark, la «deformazione della temporalità messa in atto dal potere, l’appropriazione della storicità da parte di chi rivendica la sovranità, un processo che può essere in modo consapevole e persino aggressivo diretto contro la storicità alternativa di un avversario». Emblematico di quella che lo storico definisci opportunamente 'cronopolitica', è il caso del nazismo: con esso si impone una temporalità che non ambisce a essere storica ma pretende, invece, di essere mitica, riannettendosi al tempo astorico della razza. Si infrange, con il nazismo, l’idea della storia, affermatasi con la Rivoluzione francese, come «continua iterazione del nuovo», la sua configurazione «come un treno travolgente, una sequenza di momenti o eventi i quali, proprio perché non sono ancorati a una struttura temporale ciclica, posso svolgersi a qualsiasi velocità«.

E oggi? Quale 'tempo' abitiamo? Quale è la qualità della grana storica che ritma le nostre esistenze? La vischiosità del presente consente quell’esercizio di critica che Michel Foucault definiva 'ontologia dell’attualità'? L’aspirazione che ha attraversato gli ultimi due secoli con la potenza di una scossa tellurica e che voleva sottrarre l’uomo alla sudditanza dal lavoro sembra essersi rovesciata nel suo contrario. Il desiderio di una doppia liberazione del e dal lavoro ha condotto, in realtà, a una ipertrofia del lavoro: tempo libero e tempo lavorativo sono oggi sostanzialmente omogenei, sembrano obbedire alle stesse logiche implacabilmente produttive. Come ha scritto il sociologo francese Jean Baudrillard, «se la fabbrica non esiste più, è che il lavoro è ovunque». Il tempo è insomma, oggi, ciò che residua dal lavoro. La nostra si configura così sempre più come «la società della stanchezza», come l’ha definita icasticamente il filosofo tedesco di origini sudcoreane Byung-Chul Han, una società nella quale l’imperativo a produrre e a consumare finisce per stritolare l’individuo e a imporsi come una forza totalizzante. Ma non basta: l’ordine digitale nel quale siamo immersi, con la forza dell’istantaneità che la connota, «abolisce determinate forme temporali» espugnando, ad esempio, la pazienza e l’attesa e annullando, con esse, il respiro, la partitura stessa del tempo. Compito del nostro presente è, allora, quello di (ri)trovare un tempo felicemente dis-attuale, disancorato, depurato, disintossicato. Un tempo libero di indugiare.

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