mercoledì 6 aprile 2022
È necessario superare il modello standard di agente economico che ragiona in base al calcolo costi-benefici per vincere la sfida della cooperazione umana su scala globale
L'eredità antica (e universale) del dono gratuito
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La cura collettiva di una risorsa comune è una faccenda complicata. La difficoltà a tutelare l’integrità dei nostri ecosistemi naturali, i problemi legati alla qualità del dibattito pubblico, la tragica difficoltà a preservare la pace, sono solo alcuni degli esempi che ci possono aiutare a capire l’intrinseca difficoltà connessa con il coordinamento delle azioni collettive necessaria alla salvaguardia dei beni comuni. Superare questa fragilità è sempre più indispensabile in un mondo caratterizzato da fortissime interdipendenze come quello dove oggi viviamo. Le frontiere nazionali non bloccano le influenze reciproche e ciò che accade a migliaia e migliaia di chilometri di distanza, in un altro Paese, in un altro continente, finisce per avere un’influenza diretta e tangibile per la mia vita come se stesse accadendo dietro l’angolo. La pandemia degli ultimi anni e la tragica guerra di queste settimane lo insegnano in modo inequivocabile. Abbiamo visto nelle puntate precedenti di questa nostra esplorazione sulla cura delle radici del nostro vivere comune, alcune vie che possono essere perseguite per facilitare l’azione collettiva necessaria a salvaguardare i commons, i nostri beni comuni: abbiamo analizzato, in particolare, il ruolo della reputazione e quello della reciprocità. E iniziato ad affrontare, nell’ultimo numero, il grande tema della gratuità. Non è possibile, naturalmente, esaurire in questo piccolo spazio un tema così centrale e vasto, né affrontarlo, come si dovrebbe, da prospettive diversificate: antropologia, filosofia, economia. Non di meno è possibile dare un’idea di come comportamenti inspirati alla gratuità possono emergere, essere rinforzati e contribuire alla qualità e alla sostenibilità della vita in comune.

Gli economisti, seguendo una linea di ragionamento elementare ma rigorosa, utilizzano per studiare la gratuità – che faticano non poco anche solo a definire – una semplice situazione sperimentale: il cosiddetto 'gioco del dittatore' (dictator game). In questo gioco due soggetti, il dittatore e il ricevente interagiscono per spartirsi una risorsa. Il dittatore riceve una certa dotazione monetaria, immaginiamo dieci euro, e deve decidere quanta parte di questa dotazione inviare al ricevente. Il trasferimento può avere qualsiasi valore, da zero a dieci. Il ragionamento standard in economia prevede un comportamento volto alla massimizzazione del reddito. In questo caso, dunque, il dittatore dovrebbe offrire sistematicamente una cifra pari a zero. In realtà quasi mai le persone reali si comportamento in questo modo. Le allocazioni medie possono discostarsi anche significativamente dalla previsione teorica. Ad un estremo, quando gli esperimenti avvengono in condizioni di totale anonimato sia nei confronti del ricevente che degli stessi sperimentatori, l’interesse personale è maggiormente sollecitato e solo circa il 30% dei partecipanti dona somme positive. Quando, invece, il destinatario dell’allocazione è un soggetto meritevole, una organizzazione non profit, per esempio, o una persona in condizioni di bisogno o anche solo qualcuno che ha potuto mandare una breve descrizione di sé al 'dittatore', allora la somma inviata raggiunge anche il 50% del totale, a volte, nel caso dei soggetti in condizioni di bisogno, perfino il 100%. Le donazioni, quindi, possono essere influenzate da molte variabili differenti, ma si basano purtuttavia su un principio comportamentale condiviso e diffuso.

Nel 1993 un gruppo di influenti economisti, Sam Bowles, Kenneth Arrow e Amartya Sen, vennero coinvolti dall’allora Presidente della Fondazione MacArthur, Adele Simmons, in una serie di progetti di ricerca volti a promuovere studi transdisciplinari nelle scienze sociali. Nacque così il Preferences Network un gruppo di ricerca formato da economisti, antropologi e psicologi interessati a sviluppare modelli di comportamento secondo cui le persone tengono conto degli effetti delle loro azioni non solo su sé stesse, ma anche sugli altri, e in cui i processi che determinano gli esiti contano così come gli esiti stessi. Il lavoro degli antropologi fu particolarmente prezioso, in questo senso. Ne vennero coinvolti decine, ognuno esperto di una particolare popolazione e cultura. Dopo un training intensivo in economia sperimentale vennero inviati ai quattro angoli della terra, dalle isole della Polinesia, al cuore della foresta Amazonica, dalle pianure secche del Centrafrica alla steppa della Mongolia. Quanto il comportamento di queste popolazioni culturalmente isolate sarebbe stato differente rispetto a quello osservato nei laboratori computerizzati delle università nordamericane ed europee? Dopo un lavoro sul campo durato un anno e mezzo i ricercatori si ritrovarono all’università della California a Los Angeles per condividere e discutere le loro scoperte. Dopo la pubblicazione dei primi risultati (Henrich, J., et al., 'Foundations of Human Sociality : Economic Experiments and Ethnographic Evidence from Fifteen Small-Scale Societies'. Oxford University Press, 2004) venne finanziato un secondo progetto ancora più ambizioso. In questa seconda serie di esperimenti veniva preso in considerazione anche il 'gioco del dittatore' (Ensminger, J., Henrich, J., 'Experimenting with Social Norms. Fairness and Punishment in Cross-Cultural Perspective'. Rusell Sage Foundation, 2014).

I risultati di questo secondo progetto nel loro complesso mostrano quattro tendenze ben documentate: 1) comportamenti improntati all’equità sono sistematici anche se molto variabili. Per quanto riguarda il 'gioco del dittatore' i dati mostrano che le offerte medie in tutte le popolazioni osservate variano tra il 26 e il 47%. Nessuno, insomma, si comporta da puro homo economicus.; 2) il senso di equità aumenta con il grado di 'integrazione di mercato' di una certa popolazione. Questo valore è misurato come la percentuale di calorie che vengono acquistate sul mercato attraverso scambi e non autoprodotte. In qualche modo questa variabile ci dice quanto è necessario collaborare con degli estranei per poter sostentarsi. Più siamo interdipendenti, maggiore sarà il nostro senso di equità e la nostra generosità; 3) l’equità aumenta anche nel caso di appartenenza a una religione mondiale. Rispetto a coloro che praticano religioni locali o tradizionali, i fedeli islamici o cristiani tendono a fare offerte maggiori nel 'gioco del dittatore'; 4) la volontà di far rispettare le norme di equità cresce all’aumentare delle dimensioni della comunità. Tanto più e numeroso il gruppo tanto maggiore è l’importanza rivestita da comportamenti cooperativi che vanno quindi preservati e rinforzati. La preziosa collaborazione tra economisti, psicologi ed antropologi ci ha aiutato in questi ultimi anni a disvelare la comune radice dei comportamenti prosociali che stanno alla base, tra l’altro, di una efficace gestione collettiva dei beni comuni. È necessario superare in questo senso il modello standard di agente economico che ragiona esclusivamente in base al calcolocosti benefici e risponde solo agli incentivi materiali. Dobbiamo farlo se vogliamo imparare a progettare istituzioni che siano rispettose della nostra natura più profonda di esseri sociali e socievoli e, soprattutto, che siano efficaci nel favorire il coordinamento necessario a vincere quella 'colossale sfida' che rappresenta oggi la cooperazione umana su scala globale.

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