mercoledì 9 giugno 2010
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Dipendenti sì, ma anche azionisti. A volte addirittura proprietari, cioè possessori della maggioranza delle quote di un’impresa o dell’azienda intera. La partecipazione dei dipendenti alla proprietà e alla gestione delle imprese ha una lunga storia ed è un argomento di discussione su cui ciclicamente, in maniera quasi carsica, torna a concentrarsi l’attenzione di economisti, opinione pubblica, imprese e lavoratori, anche del legislatore. Una ricerca appena pubblicata dimostra che esistono ulteriori importanti motivi per riprenderlo in considerazione oggi, nell’era della crisi.La ricerca è stata effettuata dalla londinese Cass business school, considerata fra le realtà di eccellenza in Europa nel campo degli studi economici e finanziari più innovativi, su commissione di The John Lewis Partnership, azienda britannica che costituisce uno dei più importanti esempi di comproprietà dei lavoratori (tutti i suoi quasi 69mila dipendenti sono anche soci).I risultati della ricerca dicono che le società di proprietà dei dipendenti hanno performance migliori, rispetto alle altre aziende, per quanto riguarda una dimensione particolarmente rilevante in tempo di crisi: la resilienza, termine utilizzato in ingegneria per significare la capacità di un materiale di resistere alle sollecitazioni. Trasferito al mondo delle imprese, il concetto di resilienza ha a che vedere con «l’abilità di sopravvivere e di adattarsi a condizioni economiche difficili sostenendo l’occupazione e la crescita», dice il professor Joseph Lampel, docente di strategia alla Cass business school, fra gli autori della pubblicazione. «Negli ultimi vent’anni – dichiara Lampel – l’importanza della resilienza non è stata tenuta nella giusta considerazione. Le strategie aziendali sono state predominate da un’attenzione incessante al perseguimento del massimo valore dalle quote di partecipazione. Viste le condizioni in cui versa l’economia, si dovrebbe riconsiderare la resilienza propria del modello d’impresa di proprietà dei dipendenti e come potrebbe apportare dei vantaggi reali all’economia».Analizzando i dati finanziari e le informazioni sulla struttura direttiva di oltre 250 società internazionali, la ricerca ha rilevato che quelle di proprietà dei dipendenti sono più resilienti perché si dimostrano più efficienti, quando l’economia di mercato mostra segni di flessione, e sono meno soggette a fallimenti. In particolare nel caso delle aziende piccole e medie e nei settori in cui la competizione si gioca su competenze molto specifiche e su un elevato grado di professionalità. Le imprese di proprietà dei dipendenti, quindi, danno prova di saper creare posti di lavoro più velocemente e di essere più efficaci nel produrre valore aggiunto a parità di redditività.Dove sta il segreto? Nelle relazioni umane e nella capacità di far leva sul fattore motivazionale. «Queste imprese – spiega il professore – possono attingere alla fedeltà e alla motivazione dei dipendenti. Ciò non significa necessariamente praticare salari più bassi, anche se può accadere, ma la disponibilità ad essere flessibili quando è necessario. Nelle imprese tradizionali, invece, molti dipendenti non si sentono considerati e quindi sono disincentivati a sposarne gli obiettivi. Un problema che può essere contrastato offrendo ai dipendenti una quota di partecipazione, ma soprattutto creando meccanismi che permettano loro di far sentire la propria voce nel processo decisionale e strategico».La crescita di questo modello di aziende, tuttavia, è ostacolata soprattutto dalle difficoltà che esse incontrano nell’accesso al credito, poiché le banche sono più abituate a trattare con aziende tradizionali. «Governi e regolatori – conclude Lampel – possono aiutare, incoraggiando le istituzioni finanziarie a dar credito e queste aziende».
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