sabato 15 luglio 2023
L’interruzione del processo di apertura dei mercati e di legami economici tra gli Stati sembra più una teoria che un fatto reale
Anche il rientro della produzione nei Paesi occidentali non sta avvenendo

Anche il rientro della produzione nei Paesi occidentali non sta avvenendo - REUTERS

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La deglobalizzazione per il momento sembra più una teoria che una realtà. L’idea che il processo di apertura dei mercati internazionali e di crescita delle relazioni commerciali e finanziarie tra gli Stati che ha caratterizzato gli ultimi quattro decenni si stia interrompendo è affascinante. Prima la pandemia, originata dalla Cina, e poi l’invasione dell’Ucraina, che ha dimostrato l’inaffidabilità della Russia, avevano le caratteristiche dei fattori perfetti per accelerare questo processo, che avrebbe spezzato molte delle “catene globali del valore” per riportare le produzioni più vicine ai luoghi in cui i prodotti vengono consumati. Homecoming, della giornalista americana Rana Foroohar, è stato uno dei libri di economia più venduti nel 2022: è un saggio sui limiti dell’economia globale, sempre più dominata da grandi multinazionali e da nazioni, come la Cina, che cavalcano l’apertura dei mercati distruggendo posti di lavoro negli Stati Uniti e in Europa. Il ritorno a filiere più corte, magari limitate a Paesi amici (il cosiddetto friendshoring) o costruite su scala nazionale, poteva essere la naturale risposta a questo declino.

A parole la deglobalizzazione sembra iniziata. Questa settimana il governo tedesco ha pubblicato la sua strategia per ridurre la dipendenza dalla Cina nei settori strategici, a partire da farmaci, batterie, microchip. Mentre Janet Yellen, segretario al Tesoro americano, nel suo viaggio a Pechino ha ripetuto che gli Stati Uniti intendono raggiungere una maggiore diversificazione delle forniture, pur evitando con attenzione di parlare di “decoupling”, cioè disaccoppiamento, dei rapporti Usa-Cina.

I numeri però dicono che la globalizzazione dopo la pausa del Covid è tornata in gran forma. Nel 2022 l’export di beni e servizi è tornato a rappresentare il 30,7% del Pil globale, dopo che era sceso al 26,4% nel 2021. È il livello più alto dal 2008, cioè l’anno del record storico del 31%. Anche nel primo trimestre del 2023, dicono gli ultimi numeri dell’Unctad, l’organo delle Nazioni Unite per il commercio, gli scambi internazionali sono cresciuti, con un aumento di 150 miliardi di dollari sul trimestre precedente. Come valore sono sopra del 30% rispetto ai livelli del 2019, come volume l’aumento è attorno all’8%. Anche l’Europa vive una ripresa degli scambi. Nei primi cinque mesi dell’anno l’export verso le nazioni che non fanno parte dell’Unione europea è salito del 3,7%, mentre l’import è sceso del 5,1% per effetto, però, del calo dei costi delle materie prime energetiche.

Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) il 2023 si chiuderà con aumento degli scambi dell’1,7% per poi accelerare al 3,2% nel 2024. Eurostat qualche giorno fa ha creato un’apposita sezione dedicata alla globalizzazione delle imprese, gran parte dei dati sono però ancora riferiti al 2021, quando sull’attività internazionale pesavano ancora molto le restrizioni per la pandemia. Le analisi, per il momento, confermano però che la deglobalizzazione non sembra una tendenza forte. «I numeri dicono che non c’è stata una forte risposta in termini di reshoring (cioè rientro, ndr) delle produzioni all’interno dell’Unione europea – hanno scritto per esempio tre economiste della Bce nel blog della banca centrale –. Le aziende stanno portando avanti altre strategie, inclusa la diversificazione dei fornitori e l’accumulo di scorte strategiche».

Mentre l’indice di connettività globale, elaborato dal gigante della logistica Dhl, mostra che i flussi del traffico merci nel 2022 sono già tornati sopra i livelli pre-pandemia, e anche se gli investimenti diretti all’estero per il momento sono sotto i massimi storici, continuano a crescere i pagamenti per l’uso di proprietà intellettuale straniera, le operazione internazionali di fusione e acquisizione e la quota di Pil generata dall’attività di imprese in Paesi diversi da quelli in cui hanno la sede. «Finché i mercati non de-globalizzano – ha avvertito Steven A. Altman, economista dell’Università di New York e direttore della Dhl initiative on Globalization – le aziende che si ritirano dalla globalizzazione potrebbero mettere a rischio la loro competitività».

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