Quando avere un lavoro non permette più di vivere in modo dignitoso
di Cinzia Arena
I posti abbondano, i salari non bastano. Il guaio del lavoro sono i redditi poveri

Avere un impiego non è più una condizione sufficiente per vivere in maniera dignitosa. Lo dicono i numeri, che fotografano una preoccupante crescita del lavoro povero, e lo ha detto senza troppi giri di parole il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, martedì scorso a Latina nel corso di una visita allo stabilimento BSP Pharmaceuticals, definendo i salari insufficienti una grande questione per l’Italia. «Sappiamo tutti come le questioni salariali siano fondamentali per la riduzione delle disuguaglianze, per un equo godimento dei frutti offerti dall’innovazione, dal progresso. Tante famiglie non reggono l’aumento del costo della vita». Il capo dello Stato condannando l’indifferenza sulla piaga delle morti sul lavoro, al centro delle manifestazioni di oggi di Cgil, Cisl e Uil, ha ricordato il primato negativo dell’Italia con «salari reali inferiori a quelli del 2008», particolarmente risicati quando si parla di immigrati.
Negli ultimi cinque anni, da quello ormai “storico” spartiacque che è stata la pandemia, la situazione è peggiorata. Si è assistito ad un fenomeno strisciante, definito in gergo “svalutazione interna”. Un processo che ha eroso le retribuzioni dei lavoratori più deboli e ha aumentato le diseguaglianze, accentuando un’altra tendenza, quella della “polarizzazione” tra figure professionali ricercate e ben remunerate e gli operai o impiegati non specializzati dall’altra. Le ultime tabelle pubblicate da Eurostat evidenziano la crescita dei lavoratori poveri, cioé con un reddito inferiore al 60% di quello mediano nazionale: sono passati dal 9,9% del 2023 al 10,2% del 2024. Anche il 9% di chi ha un lavoro full time (+0,3% rispetto all’anno precedente) si trova in condizione di disagio, un dato che è più che doppio di quello della Germania. La percentuale di chi è povero pur lavorando part-time è in lieve calo rispetto all’anno precedente, dal 16,9% al 15,7%, mentre aumenta tra gli indipendenti toccando il 17,2% (era il 15,8%) e rimane stabile per i dipendenti. E se risulta indigente il 18,2% degli occupati che ha frequentato la scuola dell’obbligo (dal 17,7% del 2023), nemmeno un titolo di studio terziario è sufficiente per un 4,5% di occupati laureati (con un aumento dello 0,9%) a portare a casa uno stipendio dignitoso.
In Italia il 10,5% di chi lavora ha una retribuzione inferiore al 60% di quella mediana
Tra le donne la percentuale raddoppia (19,2%)
Penalizzati i giovani
Sono sei milioni e 886mila le persone che vivono in famiglie a basso reddito. A pesare sul piatto della bilancia è sicuramente una complessiva contrazione del potere d’acquisto, i salari reali si sono ridotti dell’8,1% dal 2000 al 2023 mentre nel resto d’Europa sono cresciuti in media del 5,3%. Ma determinante è stato, per compensare la scarsa produttività del sistema Italia, il processo di riduzione o contenimento del costo del lavoro attuato in maniera scientifica. Una sorta di svalutazione, definita interna visto che quella esterna, legata alle monete nazionali, è ormai una strada non percorribile. A trainare il ribasso dei salari è stato il settore dei servizi dove si sono registrate le maggiori flessioni e al contrario si è concentrata la crescita occupazionale e delle ore lavorate. Come dire: è vero che l’occupazione è cresciuta, ma se lo si guarda da vicino quel lavoro “in più” non è né qualificato né appetibile dal punto di vista economico.
A confermarlo una ricerca Iref-Acli, realizzata su un campione di 785mila dichiarazioni dei redditi, secondo la quale il lavoro povero aumenta le diseguaglianze di genere, territoriali e intergenerazionali. «Anche questo primo maggio non avremo molto da festeggiare purtroppo - ha sottolineato il presidente nazionale delle Acli Emiliano Manfredonia - perché al di là dei proclami e dei numeri che accompagnano tanta propaganda politica, negli ultimi 10 anni i lavoratori a bassa retribuzione sono aumentati del 55%, passando dal 4,9% al 7,6% sul totale occupazionale». Numeri che raccontano di occupazioni con stipendi da fame, orari impossibili, contratti al di sotto di ogni minimo di legge. È ancora più allarmante il fatto che la povertà lavorativa sia interconnessa con questioni generazionali, di genere e territoriali.
«Per ogni uomo con un lavoro povero ci sono due donne con stipendi minimi, mentre le percentuali di incidenza della povertà lavorativa su un ventenne sono di 3,5 volte maggiori rispetto a quelle di un cinquantenne - ha aggiunto Manfredonia -. Se il lavoro buono non torna al centro dell’agenda politica del governo e di tutto il Parlamento sarà difficile anche solo immaginare il futuro di questo paese”. Il campione evidenzia come le donne con lavoro a basso reddito siano il 54% in più rispetto agli uomini (l’Eurostat parla del 19,2% rispetto al 10,5%) e gli under30 con un lavoro povero siano il 70% in più rispetto agli under50. Il divario tra Nord e Sud permane anche a livello di salario: la probabilità di firmare un contratto a bassa retribuzione in Basilicata è tre volte più probabile che firmarlo in Lombardia. La ricerca Iref ha mostrato l’esistenza di un nesso tra residenza regionale, basso reddito da lavoro e accesso al sistema sanitario: gli occupati lombardi spendono in sanità il 28% in più rispetto agli occupati lucani.
Il tema di genere è stato sollevato anche dalla segretaria della Cisl Daniela Fumarola. «Abbiamo dati che ci dimostrano che non c’è un problema di quantità del lavoro ma di qualità, semmai. E la qualità spesso è legata a rapporti part-time. Penso alle donne che sono costrette ad accettare part-time involontari perché devono conciliare vita personale con vita professionale». La sfida è fare in modo con una strategia congiunta che preveda investimenti, contrattazione e il rinnovo dei contratti che «quel lavoro povero possa invece evolversi e rientrare nella fattispecie del lavoro dignitoso, ben retribuito».
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