Motivare e ispirare le persone è la competenza per il futuro
Per il 34% è la skill essenziale. Segue la capacità di gestire lo stress (33%). Preoccupa la transizione generazionale nelle pmi. Prosegue la corsa delle donne ai vertici: +5,1% nell'ultimo anno

Sta cambiamo il ruolo dei manager nelle aziende. In contesti organizzativi in cui la pressione è sempre maggiore, motivare e ispirare le persone, gestendo il cambiamento in modo positivo, è la competenza essenziale per il futuro, indicata come priorità da un terzo dei manager (34%). Subito accanto si colloca la capacità di gestire lo stress e mantenere un equilibrio tra obiettivi aziendali e benessere del team (33%), mentre il 21% dei leader ritiene cruciale il saper innovare e vedere oltre le sfide attuali.
In quest’ottica, il feedback gioca un ruolo centrale: il 67% sostiene di richiedere frequentemente feedback pratici per migliorare i processi operativi. Prevale, così, un’attitudine positiva e proattiva nella richiesta di feedback e nell’ascolto attivo. Tuttavia, un manager su tre (29%) presenta approcci meno strutturati e regolari. Il 22% si sente molto sicuro nel fornirli in modo mirato.
Parallelamente, la delega è un elemento altrettanto cruciale: un quarto di loro delega in modo strategico e mirato, mantenendo però il controllo sugli aspetti critici, il 20% si basa sull’analisi dei carichi di lavoro e le competenze specifiche mentre il 18% sull’equilibrio dei compiti per evitare sovraccarichi. Sul fronte della motivazione, per agevolare un team produttivo e soddisfatto, il 28% lavora su equilibrio tra aspettative ed esigenze dei collaboratori, il 24% su una comunicazione positiva e sul riconoscimento dei contributi del singolo, mentre il 21% punta su rispetto e autonomia.
In quest’ottica, il feedback gioca un ruolo centrale: il 67% sostiene di richiedere frequentemente feedback pratici per migliorare i processi operativi. Prevale, così, un’attitudine positiva e proattiva nella richiesta di feedback e nell’ascolto attivo. Tuttavia, un manager su tre (29%) presenta approcci meno strutturati e regolari. Il 22% si sente molto sicuro nel fornirli in modo mirato.
Parallelamente, la delega è un elemento altrettanto cruciale: un quarto di loro delega in modo strategico e mirato, mantenendo però il controllo sugli aspetti critici, il 20% si basa sull’analisi dei carichi di lavoro e le competenze specifiche mentre il 18% sull’equilibrio dei compiti per evitare sovraccarichi. Sul fronte della motivazione, per agevolare un team produttivo e soddisfatto, il 28% lavora su equilibrio tra aspettative ed esigenze dei collaboratori, il 24% su una comunicazione positiva e sul riconoscimento dei contributi del singolo, mentre il 21% punta su rispetto e autonomia.
Ma che tipo di formazione ricevono i manager per affrontare queste sfide? Dall’indagine Essere manager: tra formazione e realtà operativa, condotta da Cegos Italia, il 50% dei manager ritiene adeguato l’investimento formativo aziendale ad essi dedicato, mentre il 36% lo giudica insufficiente e un 7% afferma che non sia previsto affatto. Alla prima assunzione del ruolo, il 41% dei manager non ha ricevuto alcuna formazione, mentre il 9% ha optato per l’autoformazione gratuita o ha investito a proprie spese. L’autoformazione gratuita è un dato in crescita se si considera i diversi livelli di seniority, confermando la tendenza di una percezione di responsabilità condivisa tra azienda e individuo rispetto alla formazione. Tra i neo manager, infatti, si assesta al 16% rispetto al 5% dei manager con oltre dieci anni di esperienza. Per i manager che si sono formati per la prima esperienza nel ruolo, la formazione è stata pianificata principalmente dall’azienda, con percentuali stabilizzate intorno al 60%.
«Chi sceglie la via di non investire in formazione per i profili di guida fa una scelta poco lungimirante e si avventurerà verso un sentiero rischioso. Le motivazioni dietro queste decisioni possono essere influenzate da limiti di budget, mancanza di visione o sottovalutazione del Roi. Eppure, investire in programmi di crescita dedicati ai manager non solo potenzia i loro risultati, ma incide su produttività e competitività, senso di appartenenza e valorizzazione dei dipendenti, migliorandone la retention – spiega Emanuele Castellani, Executive Board Member del Gruppo Cegos e ceo di Cegos Italia -. Dall’indagine emergono due esigenze fondamentali: da un lato, il bisogno di un supporto concreto che aiuti i manager a tradurre la teoria in pratica, gestendo al meglio aspetti operativi, strategici e dinamiche relazionali; dall’altro, l’importanza di promuovere la formazione come leva strategica pragmatica e continuativa per lo sviluppo delle competenze e relative performance, pena la mancanza di innovazione e di attrattività».
Oggi il ruolo del manager va ben oltre il coordinamento delle attività quotidiane, richiedendo la capacità di affrontare molteplici sfide: il bilanciamento tra strategie aziendali e operatività (43%), la creazione di ambienti motivanti (38%) e l’equilibrio tra responsabilità individuali e lavoro di squadra (34%). Seguono la gestione dei conflitti (33%), il time management – sia personale che dei collaboratori – e l’integrazione tra autorità e autorevolezza (entrambi al 29%). Nonostante il 64% abbia seguito corsi organizzati dall’azienda per sviluppare le proprie competenze, un manager su due fatica ad applicare quanto appreso durante i programmi di leadership: solo un terzo vi riesce quotidianamente. Percentuali similari anche per i programmi di comunicazione; nonostante le skill siano di natura più tangibile, il 47% dichiara di non riuscire sempre ad applicarle.
• Flessibilità e modelli ibridi: il 50% ritiene che i modelli ibridi siano adatti alla maggior parte delle situazioni lavorative, il 37% li vede addirittura come il futuro del lavoro. Per il 12% sono incompatibili con la maggior parte dei contesti lavorativi.
• Innovazione: il 46% dei manager ritiene che l’azienda la incoraggi in misura significativa, a fronte di un 27% che percepisce la propria azienda non sufficientemente impegnata, forse a causa di resistenze culturali e mancanza di visione strategica.
«Chi sceglie la via di non investire in formazione per i profili di guida fa una scelta poco lungimirante e si avventurerà verso un sentiero rischioso. Le motivazioni dietro queste decisioni possono essere influenzate da limiti di budget, mancanza di visione o sottovalutazione del Roi. Eppure, investire in programmi di crescita dedicati ai manager non solo potenzia i loro risultati, ma incide su produttività e competitività, senso di appartenenza e valorizzazione dei dipendenti, migliorandone la retention – spiega Emanuele Castellani, Executive Board Member del Gruppo Cegos e ceo di Cegos Italia -. Dall’indagine emergono due esigenze fondamentali: da un lato, il bisogno di un supporto concreto che aiuti i manager a tradurre la teoria in pratica, gestendo al meglio aspetti operativi, strategici e dinamiche relazionali; dall’altro, l’importanza di promuovere la formazione come leva strategica pragmatica e continuativa per lo sviluppo delle competenze e relative performance, pena la mancanza di innovazione e di attrattività».
Oggi il ruolo del manager va ben oltre il coordinamento delle attività quotidiane, richiedendo la capacità di affrontare molteplici sfide: il bilanciamento tra strategie aziendali e operatività (43%), la creazione di ambienti motivanti (38%) e l’equilibrio tra responsabilità individuali e lavoro di squadra (34%). Seguono la gestione dei conflitti (33%), il time management – sia personale che dei collaboratori – e l’integrazione tra autorità e autorevolezza (entrambi al 29%). Nonostante il 64% abbia seguito corsi organizzati dall’azienda per sviluppare le proprie competenze, un manager su due fatica ad applicare quanto appreso durante i programmi di leadership: solo un terzo vi riesce quotidianamente. Percentuali similari anche per i programmi di comunicazione; nonostante le skill siano di natura più tangibile, il 47% dichiara di non riuscire sempre ad applicarle.
• Flessibilità e modelli ibridi: il 50% ritiene che i modelli ibridi siano adatti alla maggior parte delle situazioni lavorative, il 37% li vede addirittura come il futuro del lavoro. Per il 12% sono incompatibili con la maggior parte dei contesti lavorativi.
• Innovazione: il 46% dei manager ritiene che l’azienda la incoraggi in misura significativa, a fronte di un 27% che percepisce la propria azienda non sufficientemente impegnata, forse a causa di resistenze culturali e mancanza di visione strategica.
• Definizione di ruoli e responsabilità: il 72% dei manager privilegia una struttura chiara, ben definita, con una comunicazione continua per adattarsi alle necessità individuali, tanto che gli interventi per mancanza di chiarezza nelle indicazioni sono isolati.
• Decisioni impopolari: il 26% le trasmette chiaramente affinché siano compresi i benefici a lungo termine, il 22% tenta di trasformarle in opportunità di crescita, mentre il 21% non è sempre a proprio agio nel comunicarle e cerca il compromesso migliore.
• Gestione dei problemi legati alle attività del team: il 39% sceglie la via dell’equilibrio, alla ricerca di una soluzione comune. Il 21% incoraggia il gruppo a vedere i problemi come sfide per agire sulla motivazione, mentre il 15% si affida ai dati per soluzioni informate.
• Risoluzione dei conflitti: il 26% preferisce una risoluzione discreta e autonoma, senza ricorrere a figure esterne, il 25% adotta una visione positiva nel tentativo di trasformare i conflitti in opportunità e il 17% resta imparziale, rischiando però di non considerare pienamente le dinamiche emotive.
• Disponibilità e comunicazione: sempre contattabili in 3 casi su 4 e promotori del dialogo per la comunicazione all’interno del team, il 53% predilige i colloqui di persona, affiancandoli a e-mail (51%) e chat (41%) per mantenere operatività e tracciabilità.
• Fiducia nel team: in prevalenza si fidano del lavoro del proprio team (32%), mantenendo un controllo discreto per evitare eccessiva rigidità e non compromettere l’autonomia del gruppo; il 24% combina la fiducia con analisi dei dati e dei risultati. Il controllo totale (micromanagement) è percepito come controproducente, tant’è che è stato scelto solo nel 4% dei casi.
• Coinvolgimento dei collaboratori nelle decisioni: il 41% adotta un approccio bilanciato, ascoltando e guidando il gruppo.
• Valutazione delle performance: uno su tre dichiara di disporre di un sistema di valutazione, ma che necessiti di miglioramenti. Il 23% non utilizza alcun Kpi, determinando una potenziale limitazione nella capacità di prendere decisioni basate su dati concreti, che potrebbe tradursi in inefficienza e difficoltà nel raggiungere i principali obiettivi strategici.
• Decisioni impopolari: il 26% le trasmette chiaramente affinché siano compresi i benefici a lungo termine, il 22% tenta di trasformarle in opportunità di crescita, mentre il 21% non è sempre a proprio agio nel comunicarle e cerca il compromesso migliore.
• Gestione dei problemi legati alle attività del team: il 39% sceglie la via dell’equilibrio, alla ricerca di una soluzione comune. Il 21% incoraggia il gruppo a vedere i problemi come sfide per agire sulla motivazione, mentre il 15% si affida ai dati per soluzioni informate.
• Risoluzione dei conflitti: il 26% preferisce una risoluzione discreta e autonoma, senza ricorrere a figure esterne, il 25% adotta una visione positiva nel tentativo di trasformare i conflitti in opportunità e il 17% resta imparziale, rischiando però di non considerare pienamente le dinamiche emotive.
• Disponibilità e comunicazione: sempre contattabili in 3 casi su 4 e promotori del dialogo per la comunicazione all’interno del team, il 53% predilige i colloqui di persona, affiancandoli a e-mail (51%) e chat (41%) per mantenere operatività e tracciabilità.
• Fiducia nel team: in prevalenza si fidano del lavoro del proprio team (32%), mantenendo un controllo discreto per evitare eccessiva rigidità e non compromettere l’autonomia del gruppo; il 24% combina la fiducia con analisi dei dati e dei risultati. Il controllo totale (micromanagement) è percepito come controproducente, tant’è che è stato scelto solo nel 4% dei casi.
• Coinvolgimento dei collaboratori nelle decisioni: il 41% adotta un approccio bilanciato, ascoltando e guidando il gruppo.
• Valutazione delle performance: uno su tre dichiara di disporre di un sistema di valutazione, ma che necessiti di miglioramenti. Il 23% non utilizza alcun Kpi, determinando una potenziale limitazione nella capacità di prendere decisioni basate su dati concreti, che potrebbe tradursi in inefficienza e difficoltà nel raggiungere i principali obiettivi strategici.
«In un ecosistema ideale, un manager efficace dovrebbe bilanciare abilità interpersonali, gestionali e tecniche per affrontare le complessità - continua Castellani -. La scelta di adottare uno stile più analitico o relazionale è influenzata dalla cultura aziendale e dalla tipologia di obiettivi, ma è evidente che, se l’innovazione è il motore del cambiamento organizzativo e il cambiamento passa dalle persone, la gestione attraverso una leadership autentica e inclusiva è il cuore del successo».
Le proposte per un ricambio strutturato
Le proposte per un ricambio strutturato
C'è una crisi che avanza in silenzio nel cuore produttivo dell’Italia. È la crisi della leadership industriale, una falla sistemica che rischia di rallentare la competitività del Paese nei prossimi anni. A segnalarla è Future Age - azienda di consulenza specializzata nell’evoluzione dei modelli organizzativi delle imprese italiane che segue da vicino per quel che riguarda i cambiamenti nei processi e nelle tecnologie - e lancia un monito: «Le imprese italiane stanno perdendo i loro pilastri, ma continuano a navigare a vista. Serve una risposta chiara, strutturata, e soprattutto urgente». Nelle pmi italiane, oltre il 60% dei ruoli chiave è oggi occupato da persone tra i 55 e i 65 anni. Sono i cosiddetti key man, manager e tecnici senior che negli ultimi decenni hanno rappresentato molto più che una funzione: sono stati il punto di riferimento decisionale, operativo e valoriale delle imprese. «Questa generazione è cresciuta in un’epoca in cui il lavoro era sacrificio, identità, visione. Ha retto la produzione, la strategia e persino il morale delle aziende. Ora si sta ritirando, ma il vuoto che lascia è ancora troppo sottovalutato», afferma il ceo di Future Age Paolo Borghetti.
In assenza di un ricambio generazionale all’altezza, molte aziende stanno virando verso modelli organizzativi “orizzontali” mutuati dal mondo anglosassone. Il più discusso? L’Holacracy, un sistema che elimina i ruoli gerarchici a favore di una governance distribuita. «Ma l’Italia non è la Silicon Valley – avverte Borghetti - nel nostro contesto culturale, eliminare le figure di riferimento senza preparare il terreno è come togliere il timone da una nave in tempesta. Il risultato è disordine, disorientamento, inefficienza. L’Holacracy è stata una soluzione teorica a un problema pratico. E qui, la teoria non basta. Il futuro delle aziende italiane si gioca oggi, nel passaggio da una leadership eroica a una leadership condivisa e consapevole. Non possiamo più affidarci al carisma di pochi singoli né all'improvvisazione organizzativa. Serve un cambio di passo, prima che il sistema crolli per mancanza di guida».
La proposta è chiara: un modello ibrido, che coniughi l’estro e l’ingegno tipicamente italiano con la precisione, la struttura e l’efficienza dei sistemi organizzativi “tedeschi”. Un mix che permetta alle imprese di gestire la complessità, senza perdere flessibilità, trasferire conoscenza dai senior ai giovani, prima che si disperda; coltivare la creatività, ma all’interno di processi chiari, replicabili e misurabili.
Future Age propone una strada diversa: una trasformazione organizzativa sostenibile, capace di traghettare le aziende verso un futuro più competitivo senza rinnegare l’identità culturale del nostro tessuto imprenditoriale. «Non serve una rivoluzione. Serve un cambio di paradigma che punti su modelli organizzativi più strutturati, su leadership diffusa ma preparata, su una transizione intergenerazionale guidata con metodo. E serve ora» sottolinea Borghetti. In che modo? Ecco il “Power Pack” che dovrebbero avere le aziende italiane: i quattro passi fondamentali per non perdersi nella transizione:
1. Mentoring intergenerazionale: il ponte tra esperienza e futuro
Il valore non si trasmette da solo: va trasferito con metodo. La scomparsa progressiva dei key man rischia di portare via con sé non solo competenze tecniche, ma anche cultura aziendale, senso di appartenenza, leadership silenziosa. Per questo, il mentoring intergenerazionale non può essere lasciato al caso. Occorre strutturare programmi di affiancamento che permettano ai giovani talenti di assorbire non solo “come si fa”, ma “perché si fa”, costruendo così una nuova generazione di leader capaci di unire innovazione e visione d’impresa.
2. Ridefinire i processi: dalla memoria individuale alla resilienza collettiva
Quando il sapere resta nella testa di pochi, l’azienda è vulnerabile. Molte PMI italiane hanno processi ancora troppo legati a singoli individui, non formalizzati e difficilmente scalabili. L’uscita di un senior può quindi paralizzare interi flussi produttivi o decisionali. Serve una mappatura chiara dei processi, una loro codifica e una standardizzazione agile che non uccida la creatività, ma garantisca continuità, replicabilità e adattabilità anche nei momenti di cambiamento o emergenza.
3. Formare i giovani leader: non solo competenze, ma cultura del lavoro
Un leader non è solo chi sa fare, ma chi sa portare. La formazione manageriale troppo spesso si ferma alle competenze tecniche e digitali, trascurando aspetti essenziali come la responsabilità, l’etica del lavoro, la gestione della complessità e il senso del servizio. Per garantire un futuro alle aziende italiane, è fondamentale educare i nuovi leader a prendersi cura dell’azienda, delle persone e della visione, costruendo una leadership solida, umana, presente.
4. Change management graduale: cambiare senza stravolgere
Non basta cambiare: bisogna accompagnare il cambiamento. Le aziende italiane hanno bisogno di evolversi verso modelli più sostenibili e strutturati, ma senza perdere la loro identità. Il change management deve essere vissuto come un percorso progressivo, che tenga insieme tradizione e innovazione, valorizzi ciò che funziona e prepari il terreno per ciò che verrà. È un lavoro di ricucitura e visione, che rende il cambiamento parte della cultura aziendale, non un trauma da subire.
In assenza di un ricambio generazionale all’altezza, molte aziende stanno virando verso modelli organizzativi “orizzontali” mutuati dal mondo anglosassone. Il più discusso? L’Holacracy, un sistema che elimina i ruoli gerarchici a favore di una governance distribuita. «Ma l’Italia non è la Silicon Valley – avverte Borghetti - nel nostro contesto culturale, eliminare le figure di riferimento senza preparare il terreno è come togliere il timone da una nave in tempesta. Il risultato è disordine, disorientamento, inefficienza. L’Holacracy è stata una soluzione teorica a un problema pratico. E qui, la teoria non basta. Il futuro delle aziende italiane si gioca oggi, nel passaggio da una leadership eroica a una leadership condivisa e consapevole. Non possiamo più affidarci al carisma di pochi singoli né all'improvvisazione organizzativa. Serve un cambio di passo, prima che il sistema crolli per mancanza di guida».
La proposta è chiara: un modello ibrido, che coniughi l’estro e l’ingegno tipicamente italiano con la precisione, la struttura e l’efficienza dei sistemi organizzativi “tedeschi”. Un mix che permetta alle imprese di gestire la complessità, senza perdere flessibilità, trasferire conoscenza dai senior ai giovani, prima che si disperda; coltivare la creatività, ma all’interno di processi chiari, replicabili e misurabili.
Future Age propone una strada diversa: una trasformazione organizzativa sostenibile, capace di traghettare le aziende verso un futuro più competitivo senza rinnegare l’identità culturale del nostro tessuto imprenditoriale. «Non serve una rivoluzione. Serve un cambio di paradigma che punti su modelli organizzativi più strutturati, su leadership diffusa ma preparata, su una transizione intergenerazionale guidata con metodo. E serve ora» sottolinea Borghetti. In che modo? Ecco il “Power Pack” che dovrebbero avere le aziende italiane: i quattro passi fondamentali per non perdersi nella transizione:
1. Mentoring intergenerazionale: il ponte tra esperienza e futuro
Il valore non si trasmette da solo: va trasferito con metodo. La scomparsa progressiva dei key man rischia di portare via con sé non solo competenze tecniche, ma anche cultura aziendale, senso di appartenenza, leadership silenziosa. Per questo, il mentoring intergenerazionale non può essere lasciato al caso. Occorre strutturare programmi di affiancamento che permettano ai giovani talenti di assorbire non solo “come si fa”, ma “perché si fa”, costruendo così una nuova generazione di leader capaci di unire innovazione e visione d’impresa.
2. Ridefinire i processi: dalla memoria individuale alla resilienza collettiva
Quando il sapere resta nella testa di pochi, l’azienda è vulnerabile. Molte PMI italiane hanno processi ancora troppo legati a singoli individui, non formalizzati e difficilmente scalabili. L’uscita di un senior può quindi paralizzare interi flussi produttivi o decisionali. Serve una mappatura chiara dei processi, una loro codifica e una standardizzazione agile che non uccida la creatività, ma garantisca continuità, replicabilità e adattabilità anche nei momenti di cambiamento o emergenza.
3. Formare i giovani leader: non solo competenze, ma cultura del lavoro
Un leader non è solo chi sa fare, ma chi sa portare. La formazione manageriale troppo spesso si ferma alle competenze tecniche e digitali, trascurando aspetti essenziali come la responsabilità, l’etica del lavoro, la gestione della complessità e il senso del servizio. Per garantire un futuro alle aziende italiane, è fondamentale educare i nuovi leader a prendersi cura dell’azienda, delle persone e della visione, costruendo una leadership solida, umana, presente.
4. Change management graduale: cambiare senza stravolgere
Non basta cambiare: bisogna accompagnare il cambiamento. Le aziende italiane hanno bisogno di evolversi verso modelli più sostenibili e strutturati, ma senza perdere la loro identità. Il change management deve essere vissuto come un percorso progressivo, che tenga insieme tradizione e innovazione, valorizzi ciò che funziona e prepari il terreno per ciò che verrà. È un lavoro di ricucitura e visione, che rende il cambiamento parte della cultura aziendale, non un trauma da subire.
Prosegue la corsa delle donne manager
Cresce la managerialità italiana nel settore privato: +2,6% nel 2023 secondo il report elaborato da Manageritalia sui dati ufficiali dell’Inps. Una crescita dovuta principalmente alla componente femminile con un incremento del 5,1% delle donne e dell’1,9% degli uomini. Si conferma quindi la forte e nota rincorsa verso la parità delle donne dirigenti, cresciute del 101,5% dal 2008 al 2023 (-2,8% gli uomini e + 9,6% il totale dirigenti) e oggi pari al 21,9% del totale (21,4% nel 2022, 20,5% nel 2021 e 19,1% nel 2020). «La crescita costante della managerialità in Italia, con un aumento del 5% nel 2023, e in particolare quella femminile, che ha registrato un incremento del 101,5% dal 2008 al 2023, dimostrano chiaramente come la rincorsa sia in atto, ma ci sia ancora tanto da fare per dare le giuste opportunità anche alle donne nel mondo del lavoro e nel management aziendale», cosi Marco Ballarè, presidente di Manageritalia, che prosegue: «La strada è tracciata: non dobbiamo fermarci né tornare indietro, ma affermare con ancora più impegno e dedizione scelte e azioni che portino a una vera parità di genere. L'inclusione femminile è nell'interesse delle imprese, del mercato e della società in cui viviamo. Un mondo in cui anche le donne sono protagoniste è senza dubbio una realtà migliore».
Per Cristina Mezzanotte, coordinatrice area D&I di Manageritalia, «la rincorsa delle donne verso la parità è in corso, ma c’è ancora tanto da fare. Ancor più c’è da fare per arrivare ad un’inclusione vera che valorizzi tutti uomini e donne, giovani e senior, culture ed etnie diverse… nonché ogni diversa abilità. Come dovrebbe ormai essere chiaro a tutti, non si deve farlo per buonismo, piuttosto per equità, ma ancor più perché i dati dimostrano che l’inclusione e la valorizzazione delle diversità portano valore e danno alle aziende più benessere e più risultati in termini di produttività, fatturati e capacità di crescita. In questo i manager, dove ci sono, hanno un ruolo determinante per mettere a terra e in sinergia questi valori e farne un fattore competitivo e vincente. Un modo per convincere tutti della bontà, anche economica, di questo cambio prima di tutto culturale che può trovare nel mondo del lavoro il punto di partenza per ampliarsi a famiglia e società».
L’incremento dei manager, e in particolar modo della componente femminile, è visibile in tutti gli ambiti economici italiani. Da notare che le donne sono percentualmente molto più presenti nel terziario (25,8%) rispetto all’industria (16,5%). A crescere di più nell’ultimo anno e in generale nel periodo considerato sono comparti quali Attività professionali (11,2%), Costruzioni (8,3%) e Attività di alloggio e ristorazione (5,3%) e Trasporto e magazzinaggio (4,5%). Il terziario privato è di gran lunga il settore più rosa, basti pensare che nella Sanità e assistenza sociale le donne dirigenti (52,3%) superano i colleghi e sono il 34,4% nell’Istruzione, il 28,4% nelle Altre attività di servizi.
Analizzando la distribuzione geografica si può notate come nella classifica delle province più "rosa", Milano prevale nettamente con 10.987 donne dirigenti, seguita da Roma (5.659) e Torino (1.469). Ai primi dieci posti solo province del nord. Nel complesso il report donne di numeri di Manageritalia dimostra chiaramente che, proprio in tempo di crisi, imprenditori e aziende hanno capito che senza managerialità non si cresce e non si compete e non si superano ostacoli e difficoltà. In tutto questo, pare ormai acclarato che la managerialità, anche femminile, è determinante per competere e crescere nei mercati ormai globali.
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