Attrarre e trattenere talenti è la sfida del futuro

Il 32,4% delle pmi ha difficoltà a causa di percorsi di crescita meno accattivanti rispetto a quelli delle grandi imprese. Seguono minore riconoscibilità (21,4%) e welfare meno strutturato (18,8%)
May 5, 2025
Attrarre e trattenere talenti è la sfida del futuro
Archivio | Talenti da attrarre e trattenere: è il compito delle imprese
Sono tante le ragioni per cui i giovani italiani preferiscono espatriare. Non è solo una questione di stipendi più alti. Le aziende del nostro Paese sono perciò chiamate a nuove sfide: attirare e trattenere talenti. La fuga dei talenti infatti è uno dei problemi più critici, con un turnover medio del 37,7% e picchi del 53,1% nei servizi. Ogni dimissione comporta non solo costi di sostituzione (fino a nove mesi di stipendio per ruolo), ma anche un impatto negativo sulla produttività e sul morale del team.
Le tecnologie emergenti e l’ingresso delle nuove generazioni nel mondo del lavoro stanno cambiando i contesti produttivi, imponendo alle piccole e medie imprese la necessità di attrarre sempre più nuovi talenti e di trattenere quelli capaci di gestire la trasformazione sotto l'aspetto tecnico-operativo. Secondo l’indagine realizzata da Adecco, difatti, il 32,4% delle pmi riscontra difficoltà nell’attrarre talenti a causa dell’offerta di percorsi di crescita meno accattivanti rispetto a quelli delle grandi imprese. Il 21,4% è ostacolato dalla minore riconoscibilità del brand e il 18,8% dall’implementazione di politiche di welfare meno strutturate. Per far fronte a tali difficoltà, le pmi italiane dichiarano di adottare diverse strategie finalizzate a fidelizzare i propri dipendenti. In questo senso, l’offerta di percorsi di formazione interni ed esterni è la pratica più comune (33,3%), seguita da bonus economici basati su obiettivi aziendali e personali (25,1%). È tuttavia interessante notare che il 15% delle aziende non implementa alcuna attività di fidelizzazione: un dato che evidenzia una rilevante area di miglioramento per questo segmento di impresa. Se si guarda nello specifico alla dimensione aziendale e alla distribuzione geografica, emerge come le piccole imprese puntino sull’offerta di formazione (circa il 35%), specialmente al Sud dove però, in molti altri casi (circa il 25%), non viene implementata alcuna attività. Le medie aziende, invece, pongono più attenzione all’offerta di piani welfare che garantiscano un maggior benessere ai lavoratori, puntando soprattutto sulla flessibilità oraria (circa il 40%). Nel Sud Italia, una quota importante di pmi, rappresentata da circa il 45% del totale, dichiara di non mettere in pratica nessun tipo di servizio di welfare. L’attrazione dei talenti non rappresenta, tuttavia, l’unico ostacolo per queste aziende. In questo contesto, per le pmi diventa particolarmente sfidante reperire le skill di cui necessitano. Più del 40% delle aziende intervistate evidenzia, infatti, particolari difficoltà nella ricerca di competenze specialistiche: tra le skill più richieste vi sono quelle di produzione, che sono le più difficili da trovare tra i candidati secondo il 20% delle imprese; seguono le competenze informatiche e digitali (16,4%), commerciali (15,7%) e ingegneristiche (14,1%). Coerentemente con questi dati, quasi il 50% delle pmi dichiara di essere alla ricerca di operai specializzati, soprattutto al Nord Italia. Tuttavia, vi è una domanda significativa anche per esperti informatici e addetti alla logistica, con una variazione regionale importante al Sud, dove emerge una maggiore richiesta di queste figure. Ma non sono solo le competenze tecniche ad essere ricercate dalle pmi: a essere altrettanto cruciali nella ricerca del candidato ideale vi sono, infatti, anche le cosiddette soft skills. In particolare, la capacità di lavorare in team e il problem solving sono le abilità trasversali più richieste dalle imprese, quest’ultima la più difficile da trovare per circa il 15% delle pmi, seguita dalla flessibilità (13,3%). Tali esigenze variano ancora una volta anche a livello territoriale: nel Nord Italia, il saper lavorare in squadra è particolarmente importante per oltre il 30% delle imprese intervistate, mentre al Sud si pone maggiore attenzione alla ricerca di capacità legate al problem solving (oltre il 30%) e risulta meno richiesta la flessibilità rispetto al Nord e Centro Italia (15%).
Le ragioni della "fuga"
Secondo il report Gallup, circa il 62% dei lavoratori non si sente coinvolto nel proprio lavoro e il 15% è attivamente disimpegnato. Un fenomeno che impatta negativamente sulla produttività, motivazione e benessere psicologico. Anche in Italia, come nel resto del mondo, aziende e lavoratori devono fare i conti con un turnover elevato, burnout diffuso e difficoltà a trattenere i talenti, in particolare i più giovani. Nel Future of Jobs Report 2025, il World Economic Forum prevede che il 39% delle competenze attualmente richieste nel mercato del lavoro subirà trasformazioni significative entro il 2030. Le aziende sanno che le cosiddette soft skill stanno diventando il vero metro del valore professionale: pensiero analitico, creatività, resilienza, flessibilità, apprendimento attivo, empatia, comunicazione. In un'epoca dominata dall'intelligenza artificiale, le competenze umane come la leadership e il lavoro di squadra sono considerate fondamentali per il successo organizzativo. Oggi, queste skill non sono più un plus: sono il prerequisito per affrontare la complessità del lavoro contemporaneo. Le aziende investono in digitalizzazione, strumenti di produttività, soluzioni agili. Ma dimenticano l’unico vero capitale che può tenerle vive: le persone che sentono. Non le più spietate, ma le più sintonizzate, che sentono prima, più a fondo, più lontano. Sono persone altamente sensibili quelle capaci di ascoltare profondamente, cogliere i segnali deboli, gestire la complessità relazionale con naturalezza. Sono i giovani che rifiutano modelli di leadership freddi, cinici, disallineati con i loro valori. E sono le donne che per anni hanno dovuto indurirsi per essere credute. In un’epoca che ha fame di umanità e autenticità, sono proprio loro i protagonisti più credibili della nuova leadership, i portatori silenziosi delle competenze più evolute del nostro tempo. Per questo nasce Leadership Sensibile, la start up ideata da Fiorella Franco, un ecosistema formativo dedicato a valorizzare la sensibilità come risorsa professionale, culturale e strategica. Il progetto si propone di rispondere a due esigenze sempre più urgenti nel mercato del lavoro contemporaneo: da un lato le aziende, che faticano ad attrarre talenti e sentono il bisogno di innovare la propria cultura organizzativa; dall’altro le persone sensibili, che vogliono trasformare la propria sensibilità in una leva professionale concreta e riconosciuta. In questo contesto, Leadership Sensibile si configura come un vero e proprio marketplace umano, dove le competenze più ricercate (empatia, ascolto, visione, intelligenza emotiva) incontrano chi le incarna per natura, generando connessioni autentiche tra bisogni reali e talenti ancora invisibili.
Quasi due terzi dei professionisti (63%) hanno invece lasciato un impiego precedente perché non si riconoscevano nei valori o nello stile di leadership dei propri manager (report di Robert Walters). Ma non è tutto: il 68% ha indicato come causa principale dell’uscita le promesse non mantenute da parte della direzione, sottolineando come la mancanza di coerenza e trasparenza possa minare profondamente la fiducia nei leader. Il report evidenzia la crescente importanza di una leadership più autentica e umana, che metta davvero al centro le persone – un fattore che sarà cruciale per il successo delle aziende nel 2025 e oltre. Il report mostra che il 62% dei professionisti si sente disconnesso quando i manager comunicano solo per ottenere informazioni, senza un reale interesse nei confronti delle persone. Inoltre, il 71% afferma di riconoscere quando l’entusiasmo dei leader è forzato o non sincero, percependolo come una forma di manipolazione emotiva. Quando si parla di cattiva leadership, ecco i comportamenti che i professionisti giudicano più dannosi:
· Mancanza di trasparenza (72%) – Nascondere informazioni o non spiegare le decisioni genera sfiducia.
· Incoerenza (66%) – Dire una cosa e fare il contrario mina il rispetto.
· Assenza di responsabilità (44%) – Non ammettere gli errori favorisce una cultura del biasimo.
· Disinteresse per il benessere dei dipendenti (30%) – Privilegiare il profitto rispetto alle persone crea un ambiente tossico.
· Micromanagement (28%) – Il controllo eccessivo ostacola autonomia, creatività e motivazione.
· Favoritismi (22%) – Trattamenti diseguali all’interno del team generano frustrazione e disimpegno.
Il report Talent Trends 2025 di Robert Walters rivela che le aziende con una leadership incentrata sulle persone hanno il 150% di probabilità in più di trattenere i top performer. Ma non solo: sono 2,6 volte più efficaci nel raggiungere i propri obiettivi.
I rimedi sempre più legati a social e Ia-Intelligenza artificiale
Nel 2023, oltre la metà delle pmi italiane – il 55,7% – ha utilizzato almeno un social network per comunicare con clienti, raccontare il proprio brand o intercettare nuovi talenti. Un dato in crescita di oltre dieci punti percentuali rispetto al 2019 (45,6%), che segnala un cambio di passo significativo nella cultura d’impresa digitale del paese. Questa evoluzione interessa l’intero tessuto imprenditoriale, ma è nelle realtà più strutturate – quelle con reti di punti vendita, partner o affiliati – che emergono con maggiore forza nuove esigenze di coordinamento e coerenza nella comunicazione. Per queste imprese, la presenza sui social non è più solo una questione di visibilità, ma un vero e proprio tema organizzativo da affrontare in modo strategico. A confermarlo sono i dati emersi da un report di Confartigianato, che raccontano un’Italia sempre più connessa anche nel mondo B2B. Il ritmo di crescita nel quadriennio 2019-2023 è stato costante: +4,8% annuo. Non solo: oltre un’impresa su quattro (27,2%) utilizza più di un social media, dimostrando un approccio sempre più strategico alla comunicazione onl ine. La presenza digitale delle piccole imprese si concentra in particolare nei settori dei Servizi (64,1%), seguiti dal Manifatturiero (47,2%) e dalle Costruzioni (43,6%). Quanto agli strumenti, i più utilizzati sono i social network tradizionali (53,6%), seguiti dalle piattaforme per la condivisione di contenuti multimediali (28,6%) come YouTube o SlideShare. Solo il 5,1% delle piccole imprese sceglie invece blog e microblog, segno che la comunicazione visiva continua a dominare. In quattro casi su dieci per rafforzare l’immagine aziendale e dei prodotti; in uno su quattro per raccogliere feedback, rispondere ai clienti e gestire la relazione con il pubblico; in uno su dieci per cercare personale o coinvolgere attivamente il proprio pubblico nello sviluppo di nuovi beni o servizi. Se da un lato cresce l’adozione dei social, dall’altro aumenta anche la complessità della gestione. Coordinare la comunicazione digitale su più canali, in modo coerente e professionale, è una sfida concreta soprattutto per le imprese che operano con una rete di punti vendita o partner locali, soci, affiliati e agenti. Il rischio è quello di generare messaggi disomogenei, che indeboliscono la percezione del brand e confondono i clienti. Per rispondere a questa esigenza, stanno emergendo soluzioni tecnologiche in grado di semplificare la gestione centralizzata dei contenuti, mantenendo però una certa autonomia operativa a livello locale. È il caso di Isual, una piattaforma di social media management nata proprio per aiutare i brand a comunicare in modo uniforme attraverso i profili social dei loro partner. L’obiettivo è chiaro: garantire coerenza, qualità e controllo sulla comunicazione, senza appesantire il lavoro dei singoli negozi o partner.
«Grazie a una gestione efficace dei talenti, si incrementa la produttività aziendale, con un impatto diretto sulla redditività dell'impresa. Motivare le persone con un piano di carriera su misura le coinvolge profondamente, aumentando il loro livello di commitment e migliorando così le loro performance», spiegano Giacomo Marchiori, Ismet Balihodzic e Andrea Raimondo, fondatori di Talentware, https://www.talentware.ai/, piattaforma basata sull'Ia-Intelligenza artificiale che consente alle organizzazioni di identificare, sviluppare e sfruttare le competenze dei dipendenti. Grazie a un algoritmo avanzato di analisi predittiva, Talentware supporta i team Hr in ogni fase del ciclo di vita del talento: dalla selezione all’onboarding, dallo sviluppo professionale alla pianificazione della successione. Un approccio che può contribuire a ridurre il turnover e i relativi costi, migliorando al contempo la produttività e il morale dei dipendenti. La piattaforma permette di passare da un modello basato sui ruoli a una skill-based organization, dove le competenze effettive delle persone sono al centro di ogni decisione strategica. Grazie a un sistema ai Ia avanzato, Talentware consente di associare i dipendenti ai ruoli più adatti in base al loro Compatibility Score, riducendo il turnover e ottimizzando la gestione delle risorse umane. A tal proposito, i fondatori di Talentware illustrano tre strategie per ridurre il turnover:
- Individuare i segnali di rischio con l’Ia. Prevenire il turnover prima che accada. L’analisi predittiva può aiutare le aziende a identificare in anticipo i segnali di malcontento o disimpegno nei dipendenti. Monitorando parametri chiave come le performance, i feedback ricevuti, la durata nel ruolo e le candidature a posizioni interne, nonchè la formazione che il dipendente non svolge, è possibile individuare chi potrebbe essere a rischio di lasciare l’azienda.
- Piani di crescita personalizzati. Dare valore alle competenze per aumentare la soddisfazione. Investire nello sviluppo delle persone è una delle leve più efficaci per migliorare l’engagement e ridurre il turnover. L’uso di dati e AI permette di identificare i gap di competenze, proponendo percorsi formativi su misura che rispondano sia alle esigenze aziendali che alle aspirazioni individuali.
- Migliore matching tra competenze e ruoli. Una gestione più efficiente delle risorse interne. Collocare le persone nei ruoli più adatti alle loro capacità e ambizioni porta benefici sia ai dipendenti che all’azienda. Grazie a un approccio basato sulle competenze, è possibile ottimizzare l’assegnazione delle risorse, migliorando la produttività e il livello di soddisfazione lavorativa.
Secondo un’indagine InfoJobs, infine, nel 2023 il 57% delle aziende italiane non ha introdotto azioni concrete per fidelizzare i propri dipendenti, nonostante quasi metà della forza lavoro – il 48,6% – si dichiari insoddisfatta e in cerca di nuove opportunità. Una tendenza che trova conferma anche nell’European Workforce Study 2025 di Great Place to Work, secondo cui in Italia quattro dipendenti su dieci vogliono cambiare lavoro. Un dato che colloca il nostro Paese in cima alla classifica europea per difficoltà nel trattenere i collaboratori, superando di nove punti la media continentale. Tra chi monitora ogni giorno questi segnali c’è Clutch, start up Hr fondata nel 2024 da Lorenzo Cattelani, che incrocia quotidianamente esigenze delle aziende e aspettative dei candidati. Se da una parte il turnover è crescente, con costi sempre più alti per selezione, on boarding e riorganizzazione interna, dall’altra emerge un dato chiaro: oggi chi cerca lavoro sa esattamente cosa vuole e, soprattutto, cosa non è più disposto ad accettare. L’ormai inflazionato work-life balance non basta più. Ridurre le ore o offrire il venerdì libero non è garanzia di successo se l’ambiente resta rigido o arretrato. Le campagne patinate o i post social emozionali non bastano più. I candidati oggi verificano la coerenza tra i valori dichiarati e quelli praticati: leggono recensioni on line, chiedono feedback a ex dipendenti su LinkedIn, analizzano le policy aziendali. La nuova generazione di talenti è più consapevole, più informata e meno incline al compromesso o a tollerare ambienti lavorativi che non rispondono ai loro bisogni. La trasparenza non è più un optional: è una pretesa legittima. Oggi la partita per trattenere i dipendenti non si gioca più solo sulla retribuzione o sulla progressione di carriera. Serve un cambio di paradigma. Le imprese che vogliono restare competitive devono abbandonare logiche rigide e abbracciare una cultura aziendale centrata davvero sulle esigenze dei dipendenti, che richiedono flessibilità autentica, valori coerenti e comunicazione trasparente. Il tempo delle promesse è finito: ora servono comportamenti concreti.

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