giovedì 20 giugno 2013
Un viaggio alle radici delle coordinate teologiche e pastorali di questo inizio di pontificato. Nel Memoriale del primo compagno di Ignazio di Loyola la «ricetta»: preghiera e servizio.
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IL VOCABOLARIO Da "misericordia" a "periferie", le parole del Papa
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È stato ampiamente osservato come in questi cento giorni di pontificato papa Francesco abbia tenuto fede, con gesti e parole, al nome da lui assunto, estremamente simbolico per la storia della Chiesa, legato alla riforma di vita e a un cristianesimo vissuto con profonda autenticità.È anche naturale che le coordinate di fondo del suo pensiero e del suo sguardo sulla Chiesa siano state ricondotte – data la sua formazione – alla spiritualità ignaziana. La capacità del discernimento, del vaglio interiore per uscire dal male e indirizzarsi al bene è infatti uno dei capisaldi e dei «tesori» del pensiero ignaziano che Bergoglio applica non solo nel cammino della vita delle persone ma anche nella vita pastorale e nel modo di esercitare il governo, l’autorità all’interno della Chiesa.Tra i modelli diretti a cui guarda papa Francesco spicca un maestro, non ancora svelato ma indicato come tale dallo stesso Bergoglio. Un maestro di cinque secoli fa con il quale si ravvedono non poche affinità elettive e convergenze di pensiero. Si tratta di un gesuita della prima ora, il primo compagno di Ignazio di Loyola alla Sorbona, il primo sacerdote dell’allora nascente Compagnia di Gesù che è stato a tutti gli effetti, e in modo singolare, un fautore della riforma cattolica e un precursore dell’ecumenismo: il beato Pierre Favre.Nato nell’alta Savoia nel 1506 e morto a Roma nel 1547, poche settimane prima della sua partenza per il Concilio di Trento, il suo nome e la sua opera sono legati al crinale di un’epoca che vide rivolgimenti e lacerazioni all’interno della cristianità, e anche per questo appare non lontano dalla nostra contemporaneità, anche se la sua figura è oggi poco conosciuta in Italia. Ignazio diceva spesso di lui: «È uno che fa sgorgare acqua dalla roccia», lo indicava come la guida spirituale più efficace fra tutti i suoi nel dono di condurre le anime a Dio, e non nascose di volerlo a capo della Compagnia a Roma al suo posto. Anche il futuro dottore della Chiesa, Pietro Canisio, da Favre guadagnato a Cristo, disse che «non aveva mai visto né inteso uno che fosse teologo più saggio e profondo, né uno di virtù più eminente e rara».La fisionomia di Favre che emerge dagli scritti è quella di un contemplativo in azione, di un uomo attratto senza tregua a Cristo, maestro d’orazione, sperimentato nel discernere gli spiriti, comprensivo della gente, appassionato alla causa dei fratelli separati. Le intuizioni più tipiche di Favre, derivate in lui da una somma di doni, si rifanno al «magistero affettivo», alla capacità cioè di comunicazione spirituale con le persone, a quella grazia di saper entrare nelle condizioni di ciascuno. Così condusse a Cristo, senza mai fare proselitismo, innumerevoli persone di ogni ceto in tutti i luoghi che furono attraversati dal suo apostolato: in Francia, Italia, Germania, Spagna e Portogallo. Attraversando l’Europa egli vede e prova ogni genere di miserie che lo rendono straordinariamente comprensivo e accogliente, preparato in modo speciale a capire al volo chiunque. Senza indisporre alcuno, si rivela capace di attirare gli altri a Cristo con l’evidenza spirituale della propria personalità, segnata da un profondo e autentico rapporto con Dio.Nelle sue riflessioni sullo Spirito Santo s’incontrano le affinità profonde con il magistero di papa Francesco. Favre intese scrivere una sorta di diario, il «Memoriale», per riconoscere più chiaramente come Dio guidava la sua vita. Dal suo «Memoriale» emerge la sensibilità di un uomo che ha avuto nella sua vita una lunga esperienza dell’azione dello Spirito Santo, dal quale egli si sente continuamente condotto, protetto nel corpo e spesso illuminato nell’anima. Lo Spirito lo conduce a un discernimento costante, quotidiano della volontà divina, non solo per quanto riguarda la vita interiore, ma anche per quello che concerne l’apostolato. L’azione apostolica per Favre non è possibile senza farsi discepoli dello Spirito Santo, il quale guida non solo a ciò che è utile operare ma ispira anche il modo in cui farlo. Questo aspetto è stato più volte ripreso da Bergoglio, e Favre è esplicitamente citato, ad esempio, nella meditazione del 2005, «Umiltà la strada verso Dio».Lo «Spiritus principalis retto e buono» come lo chiama Favre, gli consente di essere sempre più intimamente unito a Cristo. Egli sperimenta come l’influsso dello Spirito di Dio allarga il suo cuore verso tutto e verso tutti gli uomini. Questa apertura del cuore si concreta in preghiere di supplica, in prontezza al sacrificio, nel rendere grazie a Dio a nome di altri che non hanno gratitudine, nella preoccupazione per i Paesi e i loro responsabili come per le persone più ignorate e più povere. A partire da quelle incontrate nel cammino, tutte da lui come penetrate e avvolte di preghiera. Il fruttuoso incrocio di preghiera e servizio è spesso oggetto delle riflessioni di Favre. Ciò avviene ordinariamente attraverso i ministeri che compie come sacerdote: le confessioni, le predicazioni, l’amministrazione dei Sacramenti. Nelle pagine del suo «Memoriale», ardenti di carità apostolica, sembra di sentire realizzate in anticipo anche le esortazioni del Concilio Vaticano II ai preti di unire la propria vita interiore con il proprio ministero. Non desta dunque meraviglia come le parole di papa Francesco sembrino riecheggiare quelle del Favre: «Cerca continuamente di rafforzarti nello Spirito di Dio, per essere libero di fronte a un maggiore e divino servizio. È lui che apre il cuore degli uomini, lui che spinge avanti la sua Chiesa».
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