domenica 30 gennaio 2022
In Serbia, Kosovo, Montenegro e Macedonia i cattolici «profezia di pace» oltre le tensioni politiche. Il vescovo Nemet:«Insieme al di là delle differenze. La Ue aiuti che soccorre i migranti»
Una famiglia aiutata dalla Caritas della diocesi di Zrenjanin in Serbia

Una famiglia aiutata dalla Caritas della diocesi di Zrenjanin in Serbia - Catholic-zr.org.rs

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Secondo le categorie della geopolitica, incombe ancora sui Balcani l’incubo della Grande Serbia. E il barometro continua a segnare “burrasca” fra Belgrado e due Paesi limitrofi: il Kosovo che, secondo lo Stato da cui si è dichiarato indipendente nel 2008, resta «la parola serba più preziosa»; e il Montenegro che accusa la nazione vicina di mire espansionistiche. Tensioni che, fra alti e bassi, marcano il quotidiano di dieci milioni di abitanti. Se, però, si cambia la prospettiva e il punto di visione diventa quello della Chiesa cattolica, allora Serbia, Montenegro, Kosovo e Macedonia del Nord possono vivere l’uno a fianco dell’altro. Anzi, vivono già alla luce della fraternità concreta. Come testimonia la Conferenza episcopale dei Santi Cirillo e Metodio che riunisce i vescovi delle quattro realtà nazionali e che, grazie al Montenegro, si affaccia sul mar Adriatico. «Siamo profezia di riconciliazione», sorride il presidente, il vescovo Ladislav Nemet che guida la diocesi di Zrenjanin in Serbia. E subito aggiunge: «Non è una sfida semplice. Abbiamo lingue diverse. Ci confrontiamo con legislazioni non uniformi. Anche nella liturgia esistono differenze. Eppure camminiamo insieme».

Il vescovo Ladislav Nemet che guida la diocesi di Zrenjanin in Serbia ed è presidente della Conferenza episcopale dei Santi Cirillo e Metodio

Il vescovo Ladislav Nemet che guida la diocesi di Zrenjanin in Serbia ed è presidente della Conferenza episcopale dei Santi Cirillo e Metodio - Catholic-zr.org.rs

La comunità cattolica è una piccola minoranza. «In Serbia siamo il 5%; in Kosovo 1%; in Macedonia lo 0,2%; una cifra simile in Montenegro. Nel corso dei secoli gli Stati o le frontiere sono cambiate; le nostre Chiese sono rimaste», spiega il presule che parteciperà all’Incontro dei vescovi del Mediterraneo ispirato alla profezia di pace di Giorgio La Pira che si terrà a Firenze dal 23 al 27 febbraio e che sarà concluso da papa Francesco. Membro della Società del Verbo Divino, 65 anni, missionario nelle Filippine, poi docente in Austria e in Croazia, ex segretario della Conferenza episcopale ungherese, Nemet è vescovo dal 2008. E dallo scorso settembre è uno dei vicepresidenti del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa.


Si terrà a Firenze dal 23 al 27 febbraio il secondo incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” promosso dalla Cei che porterà in Toscana i vescovi delle Chiese affacciate sul grande mare in rappresentanza di tre continenti (Europa, Asia e Africa). Al centro dell’incontro, ispirato alle intuizioni del "profeta di pace" Giorgio La Pira, il tema della cittadinanza letta alla luce della fraternità fra i popoli in un'area segnata da guerre, persecuzioni, emigrazioni, sperequazioni. Assieme ai vescovi, arriveranno a Firenze i sindaci delle città del Mediterraneo per un forum “parallelo”. Il doppio appuntamento sarà concluso da papa Francesco domenica 27 febbraio con la sua visita a Firenze


«Nel continente si alzano i muri contro i migranti; ci sono Paesi che rifiutano i profughi; e il Mediterraneo è diventato un cimitero dell’umanità o, meglio, della mancata umanità», sottolinea. E domanda: «Perché l’Europa del Nord non contribuisce all’ospitalità o non aiuta i Paesi che sono terre di approdo dei migranti?». Una pausa. «Ho timore di quegli Stati di chiara matrice cristiana che nel nome della difesa della propria identità chiudono le porte ai rifugiati: tutto ciò è incomprensibile. Ed è innegabile che ci siano gerarchie cattoliche che su questi temi sono influenzate dall’opinione pubblica, mentre in altri casi come in Italia, Spagna o Germania la Chiesa può essere voce critica nei confronti di politiche non conformi al Vangelo. Del resto l’accoglienza non è tanto un dovere, quanto un atto d’amore verso il fratello che soffre».

La Conferenza episcopale dei Santi Cirillo e Metodio che riunisce Serbia, Montenegro, Kosovo e Macedonia del Nord

La Conferenza episcopale dei Santi Cirillo e Metodio che riunisce Serbia, Montenegro, Kosovo e Macedonia del Nord - Catholic-zr.org.rs


Eccellenza, torniamo ai Balcani. A Firenze accanto ai vescovi ci saranno anche i sindaci e si parlerà del rapporto fra Chiesa e società. Che cosa vuol dire essere minoranza?

Il volto della comunità cattolica è variegato. In Serbia e Montenegro siamo una minoranza sia religiosa sia etnica. Infatti, se prendiamo la Serbia, gran parte dei cattolici ha radici ungheresi, mentre il restante 30% è d’origine slava, ossia formato da croati, bulgari, ciechi, slovacchi. Possiamo dire di sperimentare davvero la convivialità delle differenze. In Macedonia, invece, i cattolici sono una minoranza religiosa ma la nazionalità è la medesima: infatti sono autoctoni, ossia macedoni. È quanto accade anche in Kosovo: sono cattolici e albanesi, come la popolazione del Paese. Aggiungo che negli anni Novanta, quando è caduto il comunismo in Albania, i nostri cattolici kosovari hanno tradotto i libri liturgici che ancora oggi si usano in Albania. Su due milioni di kosovari, i cattolici sono 50mila ma hanno svolto un servizio preziosissimo per la nazione “sorella”.

Una celebrazione cattolica in Montenegro

Una celebrazione cattolica in Montenegro - kotorskabiskupija.me

Essere minoranza può significare anche rischio di discriminazioni. Un pericolo che correte?

In Serbia la Chiesa cattolica ha gli stessi diritti e le stesse libertà della Chiesa ortodossa che è quella maggioritaria. Tuttavia solo la Chiesa ortodossa può usare per legge l’aggettivo “serbo”. Non può esserci la Chiesa cattolica serba ma solo la Chiesa cattolica in Serbia. E io non posso essere un vescovo serbo. Anche le parrocchie cattoliche, dopo la riforma del 2010 per la loro registrazione come entità giuridiche, hanno una denominazione di matrice croata. È discriminazione? Diciamo che è un modo per far capire che siamo altro.

E i rapporti con il colosso ortodosso?

Con la fine della Jugoslavia comunista la Chiesa ortodossa ha acquisito un ruolo sempre più importante nella società: e questo è un bene. L’elezione di papa Francesco ha contribuito a distendere le relazioni perché è un Pontefice molto apprezzato, anche se non sono maturi i tempi per un invito del Papa in Serbia. Il nuovo patriarca Porfirije, nominato un anno fa, ha un approccio dialogico: ci ha addirittura invitato come Conferenza episcopale, una novità assoluta. Certo, le relazioni sono segnate dall’ombra lunga dei dissidi fra la Chiesa ortodossa serba e la Croazia. Non siamo mai stati una parte della Croazia e la storia dimostra che abbiamo sofferto o gioito con tutto il popolo.

Guardando al Kosovo a maggioranza musulmana, come costruire ponti di fraternità con l’islam?

Nell’ex Jugoslavia l’islam è sempre stato secolarizzato, non una forza culturale benché sia divenuto un elemento identitario in Bosnia ed Erzegovina. In Kosovo, sia durante la guerra sia dopo il cessate il fuoco, la fede non ha giocato alcun ruolo. E oggi è una questione privata che non influenza le istituzioni.

Le forze di polizia mentre presidiano una chiesa cattolica a Pristina in Kosovo

Le forze di polizia mentre presidiano una chiesa cattolica a Pristina in Kosovo - Ansa

La Serbia e la Macedonia sono tappe della rotta balcanica, la «via di terra» verso l’Europa dei migranti in fuga da guerre, miseria, persecuzioni.

La definirei la via dei più poveri, di chi non ha riferimenti nel continente europeo. Fino al 2018 è stata percorsa per lo più dai siriani. Poi sono giunti anche afgani, iracheni e iraniani. Le mete sono l’Austria e la Germania. Fino allo scorso anno non si avvertiva qui da noi un clima di ostilità; adesso la situazione è cambiata anche sulla spinta dei media che diffondono fake news. I profughi restano accampati per settimane o mesi e sono anche vittime di respingimenti. Come Chiesa siamo in prima linea e attraverso la Caritas abbiamo aperto alcuni centri di aiuto anche grazie al supporto della Ue e di Caritas internationalis. Ma c’è bisogno di maggiore condivisione da parte di tutto il continente. Ecco perché nell’Incontro di Firenze la Chiesa può far sentire la propria voce anche su questa emergenza.

I giovani lasciano la Serbia. E fuggono all’estero.

È drammatico. Come vescovi vogliamo che i nostri ragazzi, ossia il nostro futuro, restino in queste terre. Ma le riforme economiche e politiche non arrivano. La corruzione è diffusa e senza raccomandazioni non si ottiene nulla. Attendiamo le elezioni nei prossimi mesi ma non c’è fiducia.

Un gruppo di giovani davanti a una chiesa cattolica in Serbia

Un gruppo di giovani davanti a una chiesa cattolica in Serbia - Catholic-zr.org.rs

E la pandemia?

Il sistema di vaccinazione ha funzionato; tuttavia il 40% della popolazione ha rifiutato la profilassi. E la povertà è cresciuta: anche nella Chiesa cattolica che ha visto crollare le offerte. E poi il Covid ha dilatato la povertà educativa soprattutto nelle famiglie più disagiate dove la didattica a distanza è stata limitata.

La Serbia guarda a Russia e Cina ma intende entrare nella Ue.

Il Paese ha una legame emozionale con la Russia, mentre con la Cina si tratta di fattori economici. La titubanza dell’Europa verso l’adesione della Serbia ha effetti deleteri. La Ue deve capire che c’è in ballo l’avvenire non solo di singoli Paesi ma del continente. E la Serbia ha dato molto all’Europa, anche solo in termini di forza lavoro esportata.


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