Don Riccardo Ceccobelli, il parroco della diocesi di Orvieto-Todi che lascia perché innamorato di una catechista - Ansa
Il vero significato dei legami, il senso di una promessa «per sempre», l’amore maturo al di là delle emozioni. Ne parliamo con il salesiano don Andrea Bozzolo, docente di teologia alla Pontificia Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e al Pontificio Istituto “Giovanni Paolo II”.
Un sacerdote lascia 'per amore', un padre di famiglia “lascia” perché si è innamorato di un’altra donna. Come valutare l’amore fondato su una promessa sacramentale e quello che arriva dopo e lo sostituisce?
Questa domanda tocca uno dei nodi più delicati della cultura affettiva di oggi. I cambiamenti in cui siamo immersi hanno favorito un approccio all’esperienza familiare che valorizza la qualità soggettiva dei legami che vi si vivono, e non solo i vincoli che ne definiscono l’assetto istituzionale. Insieme a questa maturazione della sensibilità comune, bisogna però registrare un orientamento che porta in sé una grande ambiguità: la dimensione affettiva tende ad essere pensata come una sorta di energia cieca in cerca di appagamento, un moto incontenibile che si impone con valore assoluto e che non può essere in alcun modo sottoposto a giudizio. Per questo quando si parla di “amore” si fatica a intenderlo come una “storia” che si dispiega nella fedeltà; esso pare assai più come un “sentimento” a cui piegarsi. E così paradossalmente la fedeltà al proprio sentire finisce per sostituire la fedeltà all’altro: l’affetto anziché aprire alla relazione, si rinchiude sulla percezione immediata di sé. Alla domanda che lei mi fa, la risposta più diffusa è: “Se a lui/lei va bene così… allora è giusto così”. Sembra una risposta molto benevola e tollerante, ma in realtà è una risposta drammatica.
Drammatica addirittura? Il vescovo Sigismondi parla di un amore che inchioda nel tempo i sentimenti. Non si tratta di un linguaggio un po’ estremo?
Ma è proprio così. Se quella risposta fosse vera, questo significherebbe che a proposito degli affetti non è possibile maturare un senso condivisibile. Proprio nella dimensione della vita che ci apre all’incontro con gli altri, saremmo condannati a restare privi di un significato che si può comunicare. Se la giustizia degli affetti si riducesse a una valutazione soggettivistica, allora quella giustizia non esisterebbe più. Eros e logos, desiderio e ragione, affetto e valutazione etica non avrebbero più nulla in comune, non potrebbero dialogare e illuminarsi a vicenda.
Come aiutare allora le persone - sacerdoti e sposati allo stesso modo - a comprendere che mondo degli affetti e mondo della ragione non viaggiano su due binari paralleli, come vorrebbe un certo romanticismo, ma sono le due facce della stessa promessa?
Bisogna riscoprire che il mondo degli affetti è lo spazio di un’apertura originaria alla verità, che ci introduce nel grande lavoro dell’esistenza. Pensiamo a ciò che un bambino sperimenta nell’amore dei suoi genitori. La cura che si prendono della sua vita non porta forse in sé la testimonianza di un senso del vivere che è irriducibile all’arbitrio e che sostanzialmente orienta la nostra esistenza? Tanto che quando manca, denunciamo indignati un’ingiustizia insopportabile. L’amore di un padre e di una madre per i figli appartiene, infatti, all’ambito di ciò che consideriamo “inviolabile”. Ed è proprio il senso di questa inviolabilità che ci fa uomini. Qui si apre lo spazio per un discorso sulla verità che non rimanda puramente ai sillogismi di una ragione funzionale, ma si dischiude nella risonanza affettiva al mondo della vita. Non sarebbe una buona notizia se questa inviolabilità affettiva valesse solo per i legami che si istituiscono per la generazione della carne, e non anche per le scelte affettive della libertà, come l’alleanza del matrimonio e la dedizione per il ministero.
Un sacerdote si innamora di una donna ma “sceglie” di rimanere fedele all’impegno assunto. Un marito si innamora di un’altra donna ma sceglie di rimanere fedele alla moglie. Secondo una visione laica hanno represso la loro libertà. Come intendere invece la libertà connessa a una scelta di fedeltà?
La libertà non può essere “atomizzata”, come se vivesse di scelte successive che non dischiudono l’identità profonda della persona. La fedeltà non è l’imposizione esterna di una norma, ma è la struttura dell’identità personale che si dispiega nel tempo. Attraverso le decisioni quotidiane e soprattutto attraverso le grandi scelte della vita, ognuno di noi viene a capo di sé grazie al rapporto con altri. La scelta matrimoniale, ad esempio, sancisce l’incontro con l’amato/a che ha riconosciuto la mia unicità e si è impegnato a custodirla. L’accoglienza di una vocazione consacrata o ministeriale è l’incontro con una Parola divina che mi ha rivelato il mio essere più profondo. Allontanarsi da quel legame è allontanarsi da se stessi. Essere liberi non significa essere senza legami, ma avere i legami giusti. La fedeltà non è la ripetizione monotona dell’identico, ma la capacità creativa di attraversare le tempeste della vita senza lasciarsi trascinare dalla corrente.