venerdì 25 aprile 2025
Tanti, anche non credenti, stanno per ore in coda per salutare Bergoglio. Perché? Perché si ha la consapevolezza che questo uomo ha smosso le acque stagnanti della nostra coscienza collettiva
I fedeli sono rimasti in coda per ore per poter arrivare in piazza San Pietro

I fedeli sono rimasti in coda per ore per poter arrivare in piazza San Pietro - REUTERS/Mohammed Salem

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A Roma c’è un’espressione assai nota, rimasta inalterata negli anni, nella quale si riassume il disincanto nei confronti delle «magnifiche sorti e progressive» di cui scrisse Giacomo Leopardi: «morto un Papa, se ne fa un altro».

In questa battuta al tempo stesso amara, sconsolata e tuttavia attraversata dal brivido di un superstite, intrepido sentimento di pena, cordoglio e pietà o, come diremmo oggi, resilienza, riguardo alla nostra stessa natura umana, fragile e vulnerabile, sembra sgocciolare il sottile veleno e la malinconia trasognata del grande, incommensurabile Giuseppe Gioachino Belli, pronto a redarguire con modi inflessibili i Pontefici della sua epoca senza rinunciare a tributar loro il più sorprendente e inscalfibile degli ossequi.

Eppure la folla di pellegrini che ieri l’altro, sotto il cielo scorticato di bianco e blu, nella precoce invincibile primavera della Città Eterna, procedeva ordinata in direzione della Basilica di San Pietro dov’era esposto il corpo disteso di Francesco, migliaia di persone venute da ogni parte del mondo ma anche chi abita nei quartieri limitrofi alla sede della cristianità, fra Borgo e Prati, pareva contrapporsi con ogni evidenza a quel detto popolare, incarnando piuttosto la persuasione del suo esatto contrario: no, morto papa Francesco, sarà molto difficile, per non dire impossibile, farne un altro come lui.

Era questa, a ben riflettere, oltre al compianto collettivo testimoniato dalla partecipazione commossa della gente comune, la sottile inquietudine che serpeggiava tra le migliaia di fedeli entrati all’interno del colonnato del Bernini con l’intenzione di dare il saluto finale alla figura di gran lunga più rappresentativa del primo scorcio di ventunesimo secolo: religiosi, cattolici praticanti, ma anche individui accorsi fin lì per rispetto verso un uomo capace di vivere sino in fondo la sua scelta di fede, in grado di saper rinunciare a ciò che avrebbe potuto fare in nome di quello in cui credeva di più.

Lo sappiamo: papa Francesco ha costituito un modello etico anche per molti di coloro pronti a dichiararsi atei. La sua forza simbolica, che lo ha reso un riferimento ineludibile per credenti e non credenti, dopo la scomparsa continua a essere sotto gli occhi di tutti. Ecco perché interpretarlo secondo schemi politici, o sociologici, per quanto inevitabile, è a mio avviso inadeguato. La processione lunga, lenta, eterogenea, drammaticamente composta, che ha voluto rivolgergli l’estremo omaggio, svela semmai l’elemento profetico insito nella sua predicazione: un carisma non percepibile logicamente. È come se questo Papa venuto dalla fine del mondo nell’Urbe imperitura avesse smosso le acque stagnanti della coscienza collettiva, nel segno cristiano per eccellenza, ossia quello dei dannati della Terra e degli scartati da tutti, iniziando il percorso nell’isola di Lampedusa, nel cui mare continuano a morire tutte le nostre illusioni palingenetiche, e concludendolo nel carcere di Regina Coeli, dove nutrire la speranza significa non arrendersi al fallimento. Se la Chiesa non raccoglierà il suo invito, coraggioso ma lungimirante, a varcare i propri limiti istituzionali, alla ricerca della pecorella smarrita, cioè specialmente i giovani, inebriati e confusi dalla rivoluzione digitale, difficilmente potrà sfuggire al suo destino minoritario.

L’animazione presente intorno alla bara, semplice come richiesto dal diretto interessato, perfino il rinnovato afflusso verso la Basilica di Santa Maria Maggiore, all’Esquilino, ancor prima che la salma vi venga traslata, ci interroga sulla natura del vuoto spirituale che Bergoglio ha saputo riempire con parole franche e dirette, legittimate dalla vera esperienza, così diverse da quelle troppo spesso sterili che siamo abituati a sentire. Quali altri adulti sapranno mostrare pubblicamente, impersonandoli, i valori in cui impegnare la vita?

Tante sarebbero le questioni cruciali da lui sollevate che adesso potremmo ricordare. Per quanto mi riguarda mi limito a sottolineare due aspetti, profondamente intrecciati, nei quali mi sono rispecchiato: il costante richiamo ai migranti come simbolo del confronto con gli altri, in una sorta di nuovo paradigma evangelico e il continuo richiamo alla dimensione educativa decisiva per facilitare il passaggio da una generazione all’altra. Chi viene da fuori obbliga tutti noi a un rendiconto esistenziale. Consegnare il testimone a chi prosegue il cammino ci aiuta a capire chi siamo.

I fedeli sono rimasti in coda per ore per poter arrivare in piazza San Pietro

I fedeli sono rimasti in coda per ore per poter arrivare in piazza San Pietro - REUTERS/Mohammed Salem

Nel volto cereo e immobile, veste rossa e stola bianca, il rosario stretto fra le dita, ritrovo dentro me stesso la cara immagine dell’unica volta che ebbi l’onore e il privilegio di stringergli la mano nel suo ufficio vaticano: erano gli ultimi tempi, quel giorno non riusciva a trattenere i segni evidenti di un’infinita stanchezza, reduce da una brutta influenza, non so come riuscisse a passare da un incontro all’altro, pensai che mio padre alla sua età stava seduto sul divano a guardare la televisione, non era in grado di fare alcunché, e invece lui poche ore prima aveva accolto un ordine di suore, poi qualche regnante in visita; mentre parlava gli occhi quasi gli si chiudevano.

Pareva sopraffatto, eppure nel momento in cui gli mostrammo una fotografia della nostra scuola dove si vedeva una donna africana col bambino legato a una fascia dietro le spalle, impegnata a studiare i verbi di fronte alla sua volontaria, ebbe un soprassalto, gli occhi gli s’illuminarono, le forze tornarono ad affluire, per un attimo provai la sensazione di rivederlo a Flores, il quartiere di Buenos Aires dov’era cresciuto, giovane gesuita carico di passione, al tempo stesso innervato e ferito da Gesù Cristo. Le parole d’incoraggiamento che mi consegnò in quell’occasione me le tengo per me come un gioiello interiore, utili a superare i momenti di crisi, ma soprattutto, nel mio piccolissimo, cerco di trasfigurarle, con tutta l’inevitabile imperfezione, nel rapporto quotidiano con gli altri.

Penso infatti che l’insegnamento più prezioso di papa Francesco resti legato alla necessità di rinnovare il linguaggio religioso: ovviamente non dimenticando quella che i teologi definiscono «la disciplina dell’arcano», frutto di una tradizione secolare che sarebbe puerile voler accantonare. Con tutto ciò, dovremmo riuscire a parlare a vicini e lontani, senza perdere intensità e rigore, in una concezione di cristianesimo radicale capace di tenere insieme pensiero e azione. Adesso che lui non c’è più, a me sembra fondamentale ripartire da qui.

Scrittore e docente

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