Siamo stati negli ospedali italiani che curano i bambini di Gaza

Il medico del Bambino Gesù di Roma: «Un bimbo ferito di guerra destabilizza. In decenni di lavoro non ho mai visto niente del genere»
August 29, 2025
Siamo stati negli ospedali italiani che curano i bambini di Gaza
. | Il piccolo Hani, sei mesi, con la madre Laila: è arrivato a Roma con l’arto amputato
Un aereo atterra a Orio al Serio (Bergamo), in piena notte, tra il 13 e il 14 agosto scorsi. A bordo, una bambina di 5 mesi cardiopatica e un altro di 3 anni con ferite multiple da esplosione. Entrambi sono fuggiti da Gaza, con quel che resta delle loro famiglie: padre, madre e due fratelli per la prima; solo il padre per il secondo. Sono gli ultimi dei 6 bambini gazawi curati e accolti, a partire dallo scorso anno, dall’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «Quello che accomuna tutti i pazienti è l’evidente stato di malnutrizione», spiega ad Avvenire Ezio Bonanomi, direttore della terapia intensiva pediatrica del nosocomio. Sui loro corpi, il medico riconosce i segni della guerra d’invasione che Israele conduce nella Striscia dal 7 ottobre 2023. «Quando i genitori – racconta – mi mostrano le foto di quando la famiglia era unita, in quelle immagini, che risalgono anche solo a 5 o 6 mesi fa, i bambini sono irriconoscibili. La magrezza, che oggi è evidente nei loro corpi, non c’era». Segno di una carestia che si fa ogni mese più aspra.
A riconoscerla a Gaza è stata per la prima volta settimana scorsa l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), che ha confermato «con prove sufficienti» la «malnutrizione acuta e le morti correlate alla fame». A denunciare il numero di vittime tra i bambini, invece, è stata Unicef a inizio agosto: 18mila. Altri 43.400 sarebbero a grave rischio di morte per malnutrizione entro giugno 2026 (Oms). Di questi, dall’inizio del 2024, oltre un centinaio sono stati evacuati in missioni sanitarie italiane coordinate dal Governo in collaborazione con l’Esercito, la Protezione civile e l’Oms. Trentuno solo nell’ultima spedizione di metà agosto.
Asma con la sua piccola Miar - .
Asma con la sua piccola Miar - .

Al Gaslini di Genova e al Meyer di Firenze

«È una goccia nell’oceano, ma non ci sono altri Paesi che si stanno muovendo in modo organizzato come l’Italia», spiega Giuseppe Spiga, vicedirettore sanitario dell’ospedale pediatrico Gaslini di Genova, che da un anno e mezzo cura i rapporti con le istituzioni centrali per le evacuazioni sanitarie da Gaza. Prima di arrivare in Italia, la maggior parte dei pazienti pediatrici passano da un ospedale in Egitto – «simile a una nostra struttura degli anni ‘80», come commenta chi lo ha visto – che serve come punto di prima raccolta. Ma oggi «dall’Egitto non si può più partire», spiega Simone Pancani, medico dell’ospedale Meyer di Firenze, che ha partecipato in prima persona alle missioni. Così, i voli decollano direttamente dall’aeroporto di Eilat, nel sud d’Israele.
In entrambi i Paesi di partenza, a decidere quali bambini trasferire in Italia non sono mai i medici che li accompagnano, ma le autorità di Tel Aviv: «I criteri con cui li scelgono – continua Spiga – non sono mai stati condivisi con noi. In teoria, si tratta di pazienti che hanno il maggior bisogno sanitario, ma abbiamo anche notato casi di bambini che potevano essere ancora curati a Gaza o in Egitto». La maggior parte, poi, non sono feriti di guerra, ma pazienti con patologie pregresse che non possono essere trattate nella Striscia: «Se sono vere tutte le immagini che vediamo da Gaza – commenta il medico – è difficile immaginare che non escano dalla Striscia pazienti con gravi ferite di guerra. O non è vero quello che vediamo oppure si decide di far uscire altri pazienti da Gaza».
Prima di raggiungere l’Italia, tutti i bambini percorrono un viaggio a ostacoli. «Per arrivare all’aeroporto di Eilat fanno 200 chilometri in ambulanza, pressoché tutti nel deserto», racconta Simone Pancani, che è coordinatore delle attività di maxi-emergenza per il Meyer di Firenze. «I bambini che abbiamo accolto sull’aereo – continua – erano disidratati, asciutti come acciughe. Non sappiamo se fosse per la fame, perché i report sulle loro condizioni forniti dalle autorità sono molto datati. In alcuni casi, sono vecchi di mesi». A bordo del velivolo C-130, «un ospedale tra le nuvole», i bambini vengono subito reidratati e visitati: «Alcuni erano pazienti cardiopatici molto gravi e hanno avuto problemi in volo – spiega Pancani –. Il problema è che, a volte, si presentano quadri clinici completamente differenti da quelli riportati nei documenti».
Bambini arrivati in Italia con un volo umanitario proveniente da Gaza - Ansa
Bambini arrivati in Italia con un volo umanitario proveniente da Gaza - Ansa
Al Bambino Gesù di Roma
Negli ospedali italiani i pazienti sono presi in carico da equipe mediche, assistenti sociali e mediatori linguistici. Che si curano anche delle loro famiglie. «I parenti si ammalano con i bambini – commenta il dottor Sebastian Cristaldi, responsabile del pronto soccorso dell’ospedale Bambino Gesù di Roma –. Soffrono delle stesse ferite». Nel suo ospedale, oggi, sono ancora ricoverati Miar e Hani, due dei tre pazienti palestinesi arrivati lo scorso 13 agosto. La prima è una bambina di due anni, affetta da celiachia: «Quando è giunta in pronto soccorso – spiega Cristaldi – pesava 6 chili. Il fatto che una persona è celiaca non è un limite alle nostre latitudini, ma a Gaza le diete speciali non sono concesse. Quando ho letto “malnutrizione”, non mi aspettavo niente di così grave». Hani, invece, ha sei mesi ed è arrivato a Roma con un arto amputato: «Un bambino ferito di guerra ti destabilizza. In decenni di lavoro non ho mai visto niente del genere». Con loro, si trovano le madri Asma e Laila. «La prima cosa che mi hanno chiesto è stata la possibilità di telefonare a casa – spiega il dottore –. Il mediatore mi ha tradotto la chiamata e mi sono commosso, perché i parenti rimasti a Gaza dicevano: “Adesso ci può succedere qualunque cosa, siamo sollevati perché voi siete al sicuro».
La maggior parte delle famiglie soccorse vorrebbe tornare a casa, secondo i medici, ma ha le mani legate. Non solo per la guerra: «Quando sono usciti dall’Egitto – spiega il dottor Spiga – hanno accettato di non tornare nel loro Paese passando da quel confine». Così, chi può cerca di raggiungere altri parenti in Europa. Gli altri restano in Italia: «La maggior parte – conclude il medico – sono rimasti nei dintorni di Genova e sono entrati nel sistema d’accoglienza. La comunità li ha accolti a braccia aperte: cittadini, volontari e personale ospedaliero hanno anche raccolto tonnellate di cibo per consegnarli a Gaza».

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