Quando annega un migrante, annega l’intera umanità
Nel silenzio delle rotte migratorie si consuma la più grande crisi morale del nostro tempo. Ogni vita persa dentro al mare è il fallimento di una civiltà che si è smarrita

Pubblichiamo la prefazione del cardinale Matteo Maria Zuppi alla nuova ricerca Toniolo sui corridoi umanitari (condotta con 20 donne under 35 da diversi Paesi); il focus è sulle donne, poiché gli studi sulle migrazioni hanno sottolineato che spesso le donne migranti si trovano ad affrontare situazioni più complesse e delicate rispetto agli uomini. Il libro Libere da, libere di? Storie di giovani donne in Italia con i corridoi umanitari (Vita e Pensiero, pagine 272, euro 20,00), a cura di Cristina Pasqualini e Fabio Introini - rispettivamente ricercatrice e professore associato di Sociologia generale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano -, sarà presentato il 29 settembre in Università Cattolica con monsignor Gian Carlo Perego, autore della postfazione. Gli altri testi presenti nel libro sono di: Monica Attias, Rita Bichi, Paola Bignardi, Manuela De Marco, Cristina Di Carlo, Chiara Ferrari, Mattia Ferrari, Alganesh Fessaha, Benedetta Fragomeni, Fabio Introini, Valentina Itri, Roberto Morozzo Della Rocca, Stefano Pasta, Alessia Rambelli, Paola Schellenbaum, Alice Squillace, Laura Zanfrini.
Non è facile vivere questo tempo contrassegnato da fragilità, individualismo, paure e indifferenza. Ciascuno si affanna per salvarsi da solo, credendo – e dimenticando – le dolorose lezioni contrarie a perché questo sia possibile. Non ci si salva da soli e, anche, non c’è futuro senza accoglienza. Nella polarizzazione colpevole e ignorante, alimentata nei dibattiti pubblici e in particolare sul tema dell’emigrazione, si creano luoghi comuni distorcenti, pericolosi perché non permettono di comprendere i veri rischi, fanno perdere l’umanità e il rispetto per qualsiasi vita, fondamento del cristianesimo, ma anche dell’umanesimo che da questo è scaturito.
Non si combatte l’illegalità usando l’illegalità stessa (pensiamo alle condizioni di vita dei campi in Libia, che Papa Francesco definì ‘lager’) e l’unico modo per contrastare l’illegalità, con i terribili rischi che questa comporta, è una politica – seria, lungimirante – di accoglienza. Le operazioni di salvezza di chi rischia di morire di speranza e si mette comunque in viaggio sono la conseguenza di questo umanesimo. Un umanesimo che non ha niente a che vedere con il ‘dentro tutti’, perché è solo salvare la vita, scelta impostaci dalla legge del mare, quella che con professionalità e competenza è applicata ad esempio dalla Guardia costiera o, come è accaduto, a turisti o ad altre imbarcazioni. Il numero di morti è ancora così elevato (anche se basta che uno solo perda la vita) che ci impone di coinvolgere l’Europa, in primo luogo, e quanti possono aiutare a salvare la vita, senza alcuna complicità con gli scafisti. È così che annegano molti nostri fratelli e, con loro, la nostra umanità.
Tra i tanti interventi di Papa Francesco a riguardo – come dimenticare che il suo primo viaggio da Papa, fuori dal Vaticano, fu proprio a Lampedusa? – desidero ricordare quello del 28 agosto del 2024, quando volle rimandare la consueta catechesi proprio per fermarsi e fermarci a pensare alle persone che – anche in questo momento – stanno attraversando mari e deserti per raggiungere una terra dove vivere in pace e sicurezza: «Migranti, mare e deserto. Le rotte migratorie di oggi sono spesso segnate da attraversamenti di mari e deserti, che per molte, troppe persone – troppe! –, risultano mortali» (Francesco, 2024). Continuava: «E la tragedia è che molti, la maggior parte di questi morti, potevano essere salvati. Bisogna dirlo con chiarezza: c’è chi opera sistematicamente e con ogni mezzo per respingere i migranti» (Ibidem).
Non si tratta di morti, aggiunse, «naturali». «A volte nel deserto ce li hanno portati e abbandonati. Tutti conosciamo la foto della moglie e della figlia di Pato, morte di fame e di sete nel deserto. Nell’epoca dei satelliti e dei droni, ci sono uomini, donne e bambini migranti che nessuno deve vedere: li nascondono. Solo Dio li vede e ascolta il loro grido. E questa è una crudeltà della nostra civiltà». (Ibidem)

Perché non sia messa in pericolo la vita delle persone non servono «leggi più restrittive» o la «militarizzazione delle frontiere» o i «respingimenti». «Lo otterremo invece ampliando le vie di accesso sicure e le vie di accesso regolari per i migranti, facilitando il rifugio per chi scappa da guerre, dalle violenze, dalle persecuzioni e dalle tante calamità; lo otterremo favorendo in ogni modo una governance globale delle migrazioni fondata sulla giustizia, sulla fratellanza e sulla solidarietà. E unendo le forze per combattere la tratta di esseri umani, per fermare i criminali trafficanti che senza pietà sfruttano la miseria altrui».
(Ibidem)
In quell’occasione Papa Francesco lodò l’impegno di «tanti buoni samaritani che si prodigano per soccorrere e salvare i migranti feriti e abbandonati sulle rotte di disperata speranza, nei cinque continenti. Questi uomini e donne coraggiosi sono segno di una umanità che non si lascia contagiare dalla cattiva cultura dell’indifferenza e dello scarto: quello che uccide i migranti è la nostra indifferenza e quell’atteggiamento di scartare. E chi non può stare come loro ‘in prima linea’ – penso a tanti bravi che stanno lì in prima linea, a Mediterranea Saving Humans e tante altre associazioni –, non per questo è escluso da tale lotta di civiltà: noi non possiamo stare in prima linea ma non siamo esclusi; ci sono tanti modi di dare il proprio contributo, primo fra tutti la preghiera». (Ibidem)
C’è speranza, come dimostrano le storie raccontate in questo libro. Storie di giovani donne migranti che si sono salvate e ci consentono di salvarci, di riscoprirci migliori. Queste donne non si sono salvate da sole ma con gli altri, assieme a chi le ha aiutate, altra forma di buoni samaritani. Da parte loro, le donne hanno lottato con tutte le loro forze per sopravvivere in condizioni disumane, sono state resilienti nonostante tutto e tutti, si sono adattate senza adattarsi alle barbarie, continuando a sperare che le cose potessero cambiare, che potesse arrivare qualcuno o qualcosa che le salvasse da una morte annunciata. È sicuramente per gran parte merito loro se si sono salvate. Se non avessero avuto questo atteggiamento proattivo, questa resistenza fisica e spirituale, non ce l’avrebbero fatta. Dall’altro, qualcuno, a un certo punto del percorso migratorio, ha teso loro inaspettatamente la mano, in maniera fraterna. Hanno potuto incontrare e far conto sull’aiuto di persone esperte, interessate esclusivamente al loro bene, che hanno proposto loro un programma di migrazione che contiene all’interno la parola ‘umanità’, quella che non vogliamo perdere e che dà senso alle nostre vite.
Mi riferisco ai corridoi umanitari, una via di migrazione legale e in sicurezza, frutto all’inizio anche della collaborazione ecumenica tra la Comunità di Sant’Egidio, la Chiesa Valdese, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e che vari soggetti della Chiesa cattolica hanno sostenuto. Questo programma consente di salvarsi insieme, chi migra e chi accoglie. In Italia sono tante le esperienze virtuose di accoglienza e questo libro le racconta dando voce sia alle donne migranti che ne hanno beneficiato, sia alle comunità che si sono messe in gioco attivandosi nella prossimità. Le storie: e quelle che nessuno potrà mai raccontare? Quel mondo che si è perso e di cui non abbiamo più saputo nulla? Ci convinciamo di come tutti i migranti hanno il diritto di essere salvati, non solo alcuni, mediante politiche migratorie più lungimiranti. Quando muore una persona, qualunque essa sia, in realtà annega la nostra umanità. Paradossalmente, quei pochi che si salvano, come coloro che partecipano ai corridoi umanitari, vengono considerati dei privilegiati! Solo perché hanno percorso un pezzo della loro migrazione in sicurezza, dimenticando quanto hanno vissuto prima.
L’intuizione dei corridoi umanitari è proteggere la vita delle persone, ma anche dimostrare che si può disciplinare un fenomeno che è mondiale ed epocale, e richiede solo di passare dal paradigma difensivo a quello della solidarietà, del lavoro, del futuro.
Queste donne non sono affatto delle privilegiate, sono donne a cui sono state riconosciute gravi forme di vulnerabilità, ingestibili nei loro Paesi di provenienza o di transito. Per loro migrare ha voluto dire realmente salvarsi, curarsi, ricominciare a vivere in maniera dignitosa, nonostante le ferite e le cicatrici. Queste giovani donne sono fari nella notte, sono segni di speranza. Ma ci interpellano anche, qui e ora, a fare di più per chi è ancora altrove, e rischia di annegare e di fare annegare la nostra umanità.
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